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Ma il Toro è sofferenza: la retorica lasciamola agli altri

ph: Enzo Daolio Irfotografia

Mai Cuntent / L'appuntamento imperdibile con la rubrica Mai Cuntent di Stefano Gurlino

Stefano Gurlino

"Ciclicamente, eccolo lì. Lo chiamano destino, fato, qualche amico più burbero preferisce sfiga. Le epoche servono a questo: ci consegnano storie, racconti, passaggi felici, drammatici ma noi siamo sempre (stati) qua. A commentare, lamentarci, narrare. Ecco, narrare. I nostri padri e nonni con quel 4 Maggio ci hanno cresciuto con la favola più tragica dello sport e lo hanno fatto con il tocco più infinito e raro con cui potessero farlo: un velo malinconico di sofferenza. Alziamo le mani, amici mai cuntent e non solo: stesso compito spetta e spetterà a noi. Perché nessuno, meglio di noi, può e potrà raccontare la medesima favola tragica del Chapecoense.

"Il callo del dolore. Nel ’49 l’Italia si stava curando dalla Guerra e dalla cultura sportiva e popolare arrivavano le migliori medicine. C’eravamo Noi, i De Sica e Rossellini, Fausto Coppi. I libri di storia lo definiscono “neorealismo”, io con spocchia sottraggo il -neo e mi tengo solo il realismo, che poi è quello più assoluto e vero raccontato dai filmati dei funerali dei Bacigalupo-Ballarin-Moroso, capitan Valentino e gli altri 27 consegnati al cielo troppo, troppo presto. E’ un racconto silenzioso, straziante, solenne e per l’appunto, storico. La lapide a Superga, oltre ai nomi, ha impressa un ‘qualcosa’ che impedisce di pensare ad altro una volta che si è lì davanti a guardarla. Puoi anche esser il più gobbo di tutti, ma quel “qualcosa” ti lega così fortemente a quel dolore che ogni sfottò diventa impensabile. Una mia amica raffinata dice che è il “rispetto per i morti”. Troppo semplice così. E’ il rispetto per la storia. Una storia che è noi, che è sofferenza, che è Toro.

"E ora, nel nostro (grande)piccolo, tocca proprio a noi. Facile cadere nel discorso più banale e ingenuo che si possa fare, che tra l’altro ho già letto e sentito, dai più grandi mezzi di informazione fino al bar. Fa più o meno così: “Nel ’49 non c’erano Facebook, Twitter, Instagram, i giocatori del Chapecoense un secondo prima della tragedia si stavano scattando alcune foto e poi la morte improvvisa…”. No. Ed è proprio per questa epoca della mercificazione del dolore, della notizia sconvolgi-cuori e di quella vendita quasi pianificata del messaggio di” cordoglio unico” che dovremmo attuare quel realismo forte, solamente, al nostro vissuto granata: il silenzio. Perché per soffrire il dramma del Chapecoense, basta capire, immedesimarsi, spiegare. Silenziosamente. Ognuno senza gettarsi in pasto a quella retorica che rischia di inghiottirsi e non ricordare al fato che, in mezzo al cielo, il mondo del pallone è già troppo, troppo, in credito.