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Outside the wall

Outside the wall.

Rogers Waters – Milano, 5 aprile 2011.

Se non sbaglio il vostro cronista avrebbe oggi dovuto occuparsi della seconda parte di “Bella Sarai”, viaggio negli anni ’70, concentrato in...

Redazione Toro News

Outside the wall.

Rogers Waters – Milano, 5 aprile 2011.

Se non sbaglio il vostro cronista avrebbe oggi dovuto occuparsi della seconda parte di “Bella Sarai”, viaggio negli anni ’70, concentrato in particolar modo sugli anni 1975 e 1976 e su quanto accadeva nei dintorni Toro.Ma ci sono news, non sempre breaking, che talvolta hanno la meglio e che ben si adattano secondo me a questa rubrica, che non è sempre e soltanto concentrata a raschiare la parola Toro dei pochi significati che ancora gli restano.Roger Waters a Milano…Come se fosse per una partita, il biglietto era al sicuro, dormiva da settembre.A differenza delle partite, però, se vai ad ascoltare musica, sai che troverai persone che la pensano esattamente come te, un’unica onda di spirito armonico.Per questo dico che ultimamente c’è molto più spirito Toro lontano dal Toro.

Credete nella potenza dei numeri?Io sono affascinato dal numero 5, per esempio. 5 è il numero del mese nel quale sono nato. E’ presente nel giorno del mio compleanno (25) e del mio onomastico (15), era presente in abbondanza nella mia pagella di Matematica, ma non solo.5 è anche altro.5, come il numero di gol presi dall’Inter quella sera stessa.Sarà che gliel’abbiamo un po’ tirata, sbagliando strada e passando di fronte a San Siro…Prima dell’incontro fatidico con Waters, mi ero imbattuto nei Floyd, o in parte di essi, altre 4 volte, a cui aggiungere questa performance.La quinta, quella che chiude il cerchio.

Aria di casa quando si arriva al Palaforum di Assago.Ci sono stato due anni fa, al concerto degli Eagles, ma allora era tutto diverso.C’era una giornata che non finiva mai, c’era la voglia di accaparrarsi i primi posti.C’era l’ansia un po’ incosciente ed emozionale del non sapere cosa avrebbero cantato, c’era la voglia di fermare il tempo. Una giornata intera diventata ricordo ancora prima di viverla.Con Roger Waters è diverso.Lui è il tassello mancante di una storia cominciata tanto tempo fa sul prato del Comunale con i Pink Floyd, passata attraverso colossi come Simon & Garfunkel, R.E.M., Sting, gli stessi Eagles. Tutto dunque torna al punto di partenza, a terminare il quadro che attende da tempo di essere completato.Forse si invecchia, forse si vogliono evitare le ansie.Per una volta non c’è la corsa alle prime file, l’attenzione maniacale a quello dietro che tenta di infilarsi davanti.Arrivi e fai il turista, cominci a fare foto, quando entri nel Palaforum.Sì, perché con Waters sai già esattamente quello che vedrai, conosci esattamente l’ordine dei pezzi.Con Waters non stai andando ad un concerto. Stai visitando un monumento.E quando visiti un monumento, fai foto, apri la bocca meravigliato. Per quanto te lo sei potuto immaginare, sei decisamente distante dalla realtà.Tutto è diverso, e riesce a tramortirti di stupore.

Conosci tutto di “The wall”, anche i sospiri, persino i dettagli più insignificanti o gli aneddoti legati alla sua produzione.Sono trent’anni che vai a sincrono con l’esplosione iniziale di In the flesh?, che muovi le mani nell’aria simulando la prima rullata di batteria, che immagini di essere in picchiata con lo Stuka che sgancia la bomba.Sei invecchiato su quello Stuka, e se prima a bordo eri a tuo agio, ora forse ti senti ridicolo e percepisci tutta la disperazione di quella picchiata.Così impari a riconoscere la bellezza del pianto del bambino, subito dopo, che non è più soltanto l’inizio di The thin ice.Dicevo, conosci tutto.Il microsolco originale è diventato un macrosolco, a furia di averlo ascoltato con una puntina-zappa, la copertina originale, bellissima, laconica, si è consunta in corrispondenza dei vinili.Il CD? Consumato per come può consumarsi quel dannato oggetto, con la scatola rigata a forza di averlo lasciato troppo in vani portaoggetti sommersi da altri CD.Certo, sai tutto. Con gli anni hai imparato ad apprezzare la storia di alienazione, che qualche anno prima aveva delle zone d’ombra.Qualcosa però manca. Sono 30 anni che senti parlare di “The wall”, dal vivo. Un qualcosa di incredibile per l’epoca, uno show del quale non esistono immagini, di cui parlano le cronache e le biografie dei Pink Floyd.Uno spettacolo sconvolgente e coinvolgente, nel quale a metà concerto veniva completato un gigantesco muro sul palco, che separava la band dal pubblico, simbolo dell’isolamento e della paranoia delle rockstar (e dell’uomo su scala più ampia). L’ultima grande bordata visionaria partita dalla psichedelia anni ’60, e distorta nella sua sofferta paranoia, terribile ed attualissima profezia sul disagio dei decenni a venire.Un muro simbolo della solidità musicale del gruppo.Mentre altre colonne degli anni ’70 venivano spazzati via dal Punk e dalla New Wave, i Pink Floyd facevano veramente il cavolo che volevano.

C’è un po’ di tutto al Palaforum.Un campionario umano mica da ridere, estremamente variopinto.Ci sono signori sulla sessantina, con lo sguardo aguzzo e spiritato, che sono consci di quello che stanno per vedere. Ci sono i 40enni, che forse sono la maggioranza, quelli che avrebbero visto lo show anche se si fosse tenuto in punta a una montagna.Bambini. Vero, non me lo aspettavo. Bambini accompagnati dai genitori, che anticipano a parole quello che sanno capiterà, rapendo lo sguardo dei figli, che un po’ non capiscono.C’è la coppietta pulita, fuoriuscita di fianco a me da un passato che fu, e c’è anche qualche truzzaccio.Quelli non mancano mai, qualcuno venuto per ascoltare “The wall”, quella che fa “Ui don’t nid no ediuchescion”.Si riferiscono ad “Another brick in the wall”, ovviamente una canzone che voleva essere una parodia della Disco e dell’oppressione, ma che da molti Minghiaguziofàfozzagiuve è stata eletta come propria rappresentante.E che cavoli, in fondo Gilmour ne canta la prima parte da duro, incazzato.Vuoi non rispecchiarti in questa atmosfera di durezza, stile World of Warcraft? Nel quale, livello dopo livello diventi sempre più cattivo?E minghiaziofà. Pazienza se nessuno di loro sa chi sia Gilmour.Ma andiamo avanti, per il 99%, come dicevo, siamo tutti dalla stessa parte, lasciamo perdere le polemiche.

L’attesa è tranquilla. Un modello di Stuka campeggia in alto, sospeso, pronto per quello che sarà il suo schianto sul palco. Non tutti se ne accorgono.Sul palco il muro è già abbozzato, sullo sfondo il classico schermo circolare stile Floyd.In un attimo si fanno le 21 e tutto è più tranquillo quando sai che non dovrai stare in piedi 30 minuti in più ad aspettare. I tempi sono quelli, da lì in avanti niente è lasciato al caso.Una voce fuori campo dà il benvenuto e annuncia che a Roger non dispiace se vengono fatte delle foto, basta non usare il flash.Bravo Roger, un gesto di cortesia, una finezza di chi sa che la gente è venuta lì non solo per ascoltare la musica, ma anche per guardarla. E si arrende a You Tube.Oggi la musica non si vende più su 33 giri, si vende cara e salata nei concerti.

Buio, bandiere con i martelli incrociati che sventolano sul palco.Il suono di una tromba (?) con sordina sta per essere interrotto da batteria e chitarra in distorsione.Un colpo secco “In the flesh”.Per 5 minuti il palco si trasforma in un campo di battaglia, con fuochi artificio ed esplosioni, fino allo schianto finale dello Stuka, in una fiammata rosso fuoco.Sapevamo cosa aspettarci, ma le parole non corrispondono mai a quello che si vede.Se vogliamo cominciare, allora tanto vale farlo alla grande.

Per tutta la prima parte dello spettacolo, di fronte ai musicisti viene costruito, con precisione elettronica il muro, dapprima invadente, poi inesorabile.Another brick in the wall parte I è affascinante e inquietante, pervasa da una tonalità rossastra ad annunciare con le sue note calme, l’inevitabile The happiest days of our lives.Another brick in the wall parte II è quello che tutti ci aspettiamo, enorme pupazzo di professore compreso.Ma è soltanto con l’ascolto e la visione di Mother, che si comprende quanto Waters abbia attualizzato lo show.Mother non è più soltanto la figura opprimente del controllo materno, ma la telecamera onnipresente e indifferente, il grande fratello che controlla silenzioso.Sul muro cominciano a comparire scritte di protesta, dapprima confuse, poi organiche, mentre la superficie si completa.La protesta contro la guerra si eleva con l’attualizzazione di Goodbye blue sky, nel cui video i bombardieri sganciano ordigni a forma di conchiglie (Shell) o simboli della Mercedes, vale a dire polemica diretta per il No war for oil.A 360° il discorso dell’isolamento torna intimista prendendo di mira i rapporti con le donne ed un’attualissima mercificazione del corpo femminile, proiettato sinuoso sul muro.Un discorso che era stato fondamentale nel disco di 32 anni prima, con Waters ancora scosso dai suoi complessi e dalla separazione con la prima moglie.Il discorso diventa paranoia, immagini impazzite si alternano sul muro in Young Lust e poi lo stesso esplode in una ragnatela di crepe su Another brick in the wall parte III.Sembra che esploda.E’ soltanto un effetto scenico, una proiezione 3D realizzata con una cura impressionante.Ogni mattonella ha la sua proiezione millimetrica.Per tutta la seconda parte dello show, il muro, personaggio ormai principale, si ripiegherà su se stesso, si tingerà, fingerà di collassare verso il pubblico.Ma sarà tutta finzione che coinvolgerà, senza più distacco, l’audience, anziché alienarla e separarla.Goodbye cruel world, l’ultimo tassello si incastra.La prima parte termina e si accendono le luci.Un muro alto undici metri è lì, di fronte a noi.

Nell’intervallo la sua superficie si colora di storie. Foto di persone scomparse in guerra, in qualsiasi guerra, uccise per le loro idee, scomparse per il fuoco amico.Poi lo show, dopo 15 minuti riprende, in un tripudio di macchine fotografiche.Hey You è cantata senza che nessuno della band si intraveda.E mi chiedo davvero quanto dovesse essere trasgressivo e avanti con i tempi questo spettacolo 30 anni fa, quando il pubblico, magari convenuto per un concerto tradizionale, si trovava di fronte a qualcosa del genere.La “facciata 3” va avanti simile all’impostazione originale, ma il discorso alle volte si fa toccante.In Bring the boys back home, si punta non sulla polemica sarcastica, ma sul recupero degli affetti. Il particolare diventa universale, la gioia del ritrovarsi e del non lasciarsi più, la tenerezza di un abbraccio.Il fulcro di mille storie e forse il senso di una vita in pochi secondi.Non c’è tempo, Waters, si volta di scatto e puntale braccia verso il muro.Una crepa si apre, ed anche questa è finzione.Una splendida finzione.Inizia Comfortably numb.

Comfortably numb è David Gilmour.Potrebbe esserci anche il Papa a suonare l’assolo finale in distorsione, ma non sarebbe lo stesso.Voci incontrollate davano l’agente di Gilmour a Milano il giorno prima. Qualcuno spera che la data nella quale lo zio David suonerà con l’amico-rivale, sia proprio questa.Ma la speranza è vana.Ciò nonostante la messa in scena è spettacolare. Su di una nota dell’assolo, il muro si dissolve in colori liquidi, fantastici, mentre l’assolo coinvolge e travolge, fedele alle versioni live della canzone.E’ solo un attimo. Presto i colori vengono sostituiti da costruzioni che richiamano l’opulenza delle costruzioni del Reich.Waters è pronto a trasformarsi in nazista a capo dei martelli, simbolo dell’intolleranza.Spara contro il pubblico, soddisfatto, urla grida.Poi cade sopraffatto dalla sua stessa parodia.E, come nell’originale, ha inizio il processo a se stesso, accompagnato dalle immagini di quello che fu il film.

Alla fine di The trial, sappiamo cosa ci aspetta.Il muro crolla filmato da migliaia di telefonini e telecamere, spinto con precisione millimetrica dagli assistenti.Alla fine rimane la semplicità. Una bambina che libera palloncini nel cielo mentre dall’alto migliaia di coriandoli sommergono il Palaforum.Non sono coriandoli. Waters è preciso fino alla fine. Sono i simboli contro i quali si è scagliato per tutto il concerto. Croci, stelle, marchi.Sono un monito.E’ veramente un lieto fine, nonostante il richiamo alla semplicità di Outside the wall?30 anni fa Waters si sentiva dietro al muro, cercava di comunicare la sua alienazione.Oggi comunica eccome e viene da chiedersi se il muro non sia stato costruito davanti a lui, ma tutti intorno a noi, prigionieri delle proiezioni e degli effetti 3d, che abbiamo finito per credere veri, scambiandoli spesso come finestre sul mondo.Lui si è liberato dei suoi fantasmi, ma noi?Il muro è separazione, rabbia, frustrazione, resa dei conti con se stessi, amara scoperta dell’infelicità di una realtà soltanto più tridimensionale, senza le dimensioni base, di un mondo sempre atteso ma mai arrivato.

Quando si va a un concerto si tifa tutti per la stessa cosa, si ha automaticamente appartenenza.Che possa ancora essere questa una finestra sul muro che ci circonda?La musica? La voglia di vivere, di voler bene a qualcuno?Il concerto è finito, del muro restano solo le macerie, ma mille altri muri ci attendono là fuori, muri che siamo convinti di trapassare, neanche accorgendoci della loro solidità.Il cerchio si chiude, il percorso iniziato molti anni prima sul prato del Comunale, è completo, il tassello si è chiuso.Sarebbe riduttivo, e forse scontato, dire che questo tassello ne è stato soltanto un altro mattone.