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Lo sceicco o il fondo di investimento?

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Torna "Loquor", la rubrica di Carmelo Pennisi: "Da qualche tempo circola in Italia l’idea un po’ balzana, che le squadre di calcio ormai possano essere comprate e gestite con successo solo da fondi di investimento americani o qualche sceicco...
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Ciò che mi sfugge inseguo”

Orazio

Da qualche tempo circola in Italia l’idea un po’ balzana, che le squadre di calcio ormai possano essere comprate e gestite con successo solo da fondi di investimento americani o qualche sceicco arabo. La suggestione è quella di una resa della nostra classe imprenditoriale, in affanno di super ricchi, di fronte all’investimento nel calcio, impossibile da portare avanti e da mettere a reddito. Allora meglio affidarsi all’arabo che ha sostituito nell’immaginario la celebre figura retorica dello “Zio d’America”, oppure alle logiche nebulose, e alquanto corsare, dei fondi di investimento. La parola d’ordine, nelle ansie collocate nell’animo dei tifosi, è quello di trovare una soluzione perché la squadra del cuore vada avanti nella sua storia e provi a vincere. Ma le cose stanno veramente così? Un club di calcio ha davvero bisogno di un super ricco per prosperare in utili di bilancio e risultati sportivi? Non si sta per caso prendendo un po’ troppo sul serio il modello anomalo della “Premier League”? Eppure nella pur disastrata Serie A ci sono esempi ad indicare come non sia così necessario avere ingenti patrimoni alle spalle, ma solo lucida volontà e ricerca della competenza per sviluppare progetti sportivi attraverso una logica imprenditoriale. Aurelio De Laurentiis, Claudio Lotito e Antonio Percassi, tanto per fare degli esempi, non vengono da storie imprenditoriali da “assi piglia tutto”, anzi specialmente i primi due forse diventeranno miliardari grazie al calcio, in quanto non lo erano affatto prima che prendessero Napoli e Lazio. Con il cinema italiano, se lo fai bene e con accortezza, al massimo puoi assicurarti una vita di un benestante di successo, così come con una impresa di pulizie al soldo delle amministrazioni pubbliche.

C’è da vivere più che bene, insomma, però non si sta parlando di quel Jim Ratcliffe azionista del Manchester United e padre padrone del colosso chimico mondiale “Ineos”, ma solo di piccole/medie imprese a conduzione familiare, poi trasferitasi nel calcio con cui si sta ottenendo una ricchezza quasi insperata. La “Filmauro”, che l’anno scorso nel settore audiovisivi ha chiuso in perdita con un giro d’affari di poco più di dieci milioni di euro, era quasi niente rispetto ad altri giri d’affari e ricavi, il salto notevole positivo in bilancio e avvenuto grazie al calcio. Stesso discorso, con dei dovuti distinguo, si può fare per Claudio Lotito, che a differenza di De Laurentiis e Urbano Cairo non aspettò il fallimento della Lazio per accaparrarsi il club, ma si sobbarcò, attraverso 23 rate annuali che finiranno di essere pagate nel 2028, di un debito con il fisco di 140 milioni per tasse sugli stipendi dei calciatori non pagate. Il fatto che il club capitolino abbia prosperato in utili e risultati, e che  il debito con il fisco è ormai prossimo ad essere definitivamente saldato, dimostra la possibilità anche per piccoli imprenditori senza un grande patrimonio alle spalle, di poter gestire positivamente una realtà a volte complessa come un club calcistico. Antonio Percassi al momento di prendere l’Atalanta era un abile imprenditore nel mercato “licenziatario” soprattutto nel settore tessile, e non subito ha fortuna di risultati con il calcio. Tanto che nel 1994 lascia il timone del club orobico a Ivan Ruggieri, e tornerà a riprenderlo solo nel 2010. Nonostante Bergamo sia un piccolo centro di 120.000 abitanti, Percassi è riuscito a portare il club ad un ottimo livello sportivo non solo nel nostro campionato,  ma anche in prospettiva europea. Inoltre a livello infrastrutturale l’operazione dello stadio di proprietà, è stato uno dei pochi esempi positivi in materia realizzati nel nostro Paese. Aver ceduto la maggioranza dell’Atalanta, nel 2022, a Stephen Pagliuca, non è stato un atto di resa ad un fondo di investimento, ma semplicemente una operazione tesa a trovare un partner finanziario con cui progettare con più serenità le prospettive future del club. L’esperienza dell’Atalanta smonta alquanto molte delle teorie in sostegno della necessità di avere grossi centri urbani alle spalle, al fine di poter avere risultati importanti nello sport più seguito al mondo.

Probabilmente anche il Como dei fratelli indonesiani Hartono si sta avviando, attraverso una strategia di marketing e di investimenti abbastanza particolare, a ripetere l’esperienza della famiglia Percassi a Bergamo. Joey Saputo è un imprenditore ricco, rispetto ai benestanti De Laurentiis e Lotito, ma non ricchissimo. La sua storia familiare è quella riuscita di molti italiani emigrati in America; divenuti ricchi grazie al commercio di latticini, i Saputo ora tra le varie diversificazioni di interessi hanno anche il calcio. Joey Saputo con il Bologna è riuscito a prendersi delle buone soddisfazioni, ridando al club felsineo una dimensione appagante dimenticata da anni. Non ama la ridondanza della spesa, tanto che per il mercato prossimo ha chiesto a Sartori e Di Vaio di ottenere un attivo di bilancio di venti milioni di euro, e non ha mai promesso futuri gloriosi o cose similari. Il suo credo si basa sulle reali possibilità e sulla abilità dei suoi dirigenti operativi ai quali demanda molto della gestione sportiva e finanziaria. La società rossoblu funziona bene e nessuno nel capoluogo emiliano sente l’esigenza dell’arrivo di uno sceicco arabo o di un fondo di investimento. Certo ci sono le gestioni fallimentari, dal punto di visto sportivo, di club come il Torino o la Salernitana, per non parlare del vero e proprio incubo che stanno passando Genoa e Sampdoria, ma queste non sono da imputare a mancanza di patrimoni alle spalle, bensì ad una chiarissima incapacità di gestire l’impresa calcio. Ci sarebbero altri esempi da fare, sia in positivo che in negativo, ma il risultato di ogni percorso aneddotico porterebbe ogni volta alla stesa conclusione: non c’è niente ad impedire ad un piccolo imprenditore di poter aver fortuna, nei risultati sportivi e negli utili di bilancio, nella gestione di un club calcistico italiano. Nonostante il contesto economico/sociale difficile e la trasformazione in atto del consumo del prodotto calcio, non è una “mission impossibile” darsi degli obiettivi ambiziosi nella nostra Serie A. Un campionato che ha bisogno di riformarsi nelle infrastrutture e negli obiettivi di far venir su giocatori di talento autoctoni, perché una Nazionale così povera tecnicamente come quella attuale non fa onore alla nostra tradizione e alla nostra storia nel gioco, ma comunque gravido, per chiunque abbia le giuste attitudini per un sistema d’impresa anomalo e amore per questo sport, di ambizioni e potenzialità di crescita. Dalla lista dei nostri desideri rimuoviamo quello di avere prima o poi per il nostro club del cuore una esperienza analoga a quella dell’ingresso del fondo sovrano del Qatar nel Paris Saint Germain. Essa fu una piccola parte di un accordo politico gigantesco che tuttora lega alcuni interessi dell’Eliseo a quelli del piccolo emirato arabo.

La Francia post coloniale che si muove nello scacchiere medio orientale, e con una immigrazione islamica importante, ha molto di più da offrire rispetto ad una Italia da molto tempo alla ricerca di una nuova collocazione nel Mediterraneo(anche se i recenti accordi firmati dall’attuale governo con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, potrebbero aprire nuovi scenari). Inoltre il Psg è un unicum anche nella Ligue 1, stretta attualmente nella morsa di una crisi finanziaria che la sta devastando. La quantità notevole di denaro immessa dai qatarini nel club parigino, non è il sonno irragionevole e un po’ ebete del ricco scemo, ma è figlia di un progetto di cui ancora oggi non si vedono tutti i contorni. Il calcio italiano ha bisogno di “normalizzarsi” definitivamente, per poi trovare un percorso comune di rilancio a livello globale. Per fare questo, come detto, non servono miliardari disponibili a svenarsi o fondi di investimento con l’unico scopo di una soddisfazione di istinti corsari, ma solo imprenditori veri che comprendano il calcio e sappiano delegare. Avere fiducia nel futuro vuol dire anche capire, e non solo desiderare. Usciti dall’infanzia è una delle prime lezioni che si apprendono.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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