Il rapporto tra una parte del popolo granata e la società è sempre più difficile. Le ragioni vanno trovate nello ieri e nell'oggi. Promesse e proclami a cui ha fatto seguito, negli ultimi quattro anni, una strategia che sembra non voler far propri i rischi necessari a fare un salto di qualità.
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Facile ex amico inimicum facies, cui promissa non reddas
San Girolamo, nelle sue epistole, consigliava di mantenere le promesse fatte agli amici, pena il rischio che questi divenissero nemici. Traslata nella situazione del Torino e di Urbano Cairo, questa frase ci dimostra che i buoni consigli durano nei secoli. Sarebbe una negazione della realtà, infatti, nascondere come, negli ultimi anni, si sia fatta sempre più numerosa la frangia del tifo granata disillusa dalla gestione di una società che, al contrario di quanto promesso in quel lontano 2005, sembra aver trovato la sua dimensione nella media classifica, con la massima ambizione, date coincidenze e stagioni particolarmente positive, di riuscire ad acchiappare una qualificazione all’Europa per il rotto della cuffia.
Confrontandosi con tifosi di altre squadre, questo malumore diffuso viene mal compreso: in fondo, dicono, nei dieci anni precedenti all’arrivo di Cairo il nostro palmares racconta di cinque campionati di serie B, e quattro di A, tre retrocessioni e una mancata fidejussone. Da quando è arrivato Cairo, dicono, dopo alcuni anni di difficoltà la squadra si è assestata nella parte sinistra della classifica. In fondo, aggiungo io un po’ forzosamente al ragionamento, togliendo i mitici anni '70, nel dopo Superga la posizione media - e sottolineo, media -del Toro è compresa tra il settimo e il nono posto, non così distante da quella odierna, in un calcio completamente diverso, nel quale la distanza tra piccole e grandi era inferiore, e dove, quindi, era più facile pensare di poter ambire a piazzamenti di un certo tipo. È vero, vi erano stati degli exploit, come il primo anno del Radice bis o il primo biennio Mondonico. Esistono, però, almeno quattro buonissime ragioni per non dare torto a chi, ogni estate, si sente sempre più tradito dalla gestione della società.
Promesse - La prima, come ricordato in apertura, si riassume con la parola promesse. Urbano Cairo arrivò a Torino da salvatore, Urbano I, lo chiamavano. Non era un uomo di sport, ma di immagine e comunicazione, scuola Berlusconi. Così, si rese protagonista di quello che, nel calcio, è uno degli errori più gravi: scegliere, piuttosto di adottare un profilo basso, di promettere Europa e lotte per le prime cinque posizioni in un arco di tempo relativamente breve. In fondo, se in quel lontano 2005 ci avesse detto, dopo la paura del fallimento e dieci anni passati tra Castel di Sangro e Andria (con tutto il rispetto), che il suo obiettivo era di riportare, stabilmente, il Torino nella parte sinistra della Serie A, nessuno avrebbe obiettato. Invece, alle promesse gloriose, seguirono errori di gestione e valutazione che, a distanza di sei anni, ci fecero “festeggiare”, al massimo, un quindicesimo posto in classifica, con tre anni consecutivi di serie B e uno dei peggiori piazzamenti di sempre nella storia granata.
Granatismo - Il secondo, buonissimo, motivo, è la totale assenza di granatismo. Quel cromosoma in più, insito da sempre nel genoma granata, in grado di soddisfare i tifosi anche davanti a sconfitte o a stagioni magari non eccellenti, è andato perduto. Quella grinta, quel sentimento di comunità, quel patto sociale fondato sul tacito accordo per cui, gli undici granata, uscivano dal campo acclamati dai tifosi anche davanti ad una sconfitta, purchè la loro maglietta fosse più sudata di quella degli avversari, è venuto meno a partire dalla metà degli anni ’90, ma è morto definitivamente nell'ultimo decennio. Chiaro, oggi il calcio e i calciatori sono altra cosa, ma questa è una scusa solo parziale.
Da una parte, i risultati disastrosi nel derby: una vittoria, due pareggi, quattordici sconfitte, molte delle quali arrivate assistendo ad una squadra che sembrava essere scesa in campo arrendendosi ancora prima del fischio iniziale, incapace di entrare, veramente, nello spirito richiesto, da sempre, dal derby della Mole. Dall'altra la sensazione di una mancanza di voglia, da parte della società, di preservare il patrimonio culturale granata e trasmetterlo. Quasi a normalizzare una storia che, normale, non è. Un delitto per una realtà che è ben più di un undici che corre su un campo da calcio, una colpa ancor più grave se si considera la sempre maggiore influenza sulle nuove generazioni della seconda squadra di Torino. Per vedere il Filadelfia ci sono voluti dodici anni, accompagnati da mille polemiche e dalla costante impressione che la sua ricostruzione non fosse un piacere, ma uno sforzo. Cinque anni per la prima visita ufficiale ad un sacrario come il Museo del Grande Torino, arrivata solamente nel 2010 e avvenuta, possiamo essere maliziosi, solo in risposta alle polemiche sollevate da alcuni giornalisti successivamente alla visita dell’Albinoleffe di Mondonico.
Ambizioni - Il terzo motivo è lo scudetto del bilancio. Personalmente ritengo che, sino agli ultimi anni, non si potesse contestare Cairo chiedendo una maggiore propensione agli investimenti. Al massimo, cercando di guardare al quadro completo in modo oggettivo, si poteva criticare la grande ingenuità di non aver saputo mantenere, fin da subito, un profilo basso in riferimento agli obiettivi a breve medio termine e l'inesperienza, nei primi cinque anni, rispetto a come dovesse essere gestita una società di calcio. Due gravi errori, certamente. È però evidente come, nel calcio moderno, una squadra debba essere, prima di tutto, sana economicamente, un’azienda funzionale e funzionante, almeno in mancanza di sceicchi o cinesi di turno. Serviva, in una prima fase, lavorare per un aumento del fatturato. Raggiungere una certa stabilità di bilancio, costruire una rosa di proprietà, appianare i debiti. Porre le basi, insomma. Comprensibile. È a questo punto, però, che serve lo step successivo. Il Torino, sia chiaro, non è il Napoli: gran parte del suo fatturato è ancora rappresentata dalle plusvalenze, ma gli utili sono stati comunque 60 milioni negli ultimi cinque esercizi. Dall'altra parte c’è sempre stata una squadra che, sin dall'estate, era evidente mancasse di quel piccolo investimento in più per fare il salto di qualità necessario ad entrare nel novero di chi, poteva combattere in prima linea per un piazzamento UEFA, senza dover sperare soprattutto in un'annata mediocre da parte di almeno un altro paio di contendenti. Ogni volta, poi, confermate le lacune già evidenti in estate, si è trovata la scusa per non intervenire, a gennaio, nel riempirle (Carlao e Amauri insegnano). E puntualmente si era ancora in piena corsa per una qualificazione alle Coppe Europee. Tale aspetto è, francamente, difficile da comprendere.
È infatti indubbio che la società sia stata in grado di dare un’ossatura importante a questa squadra, un’ossatura che, per qualità, non è certo inferiore a quella di chi lotta per arrivare tra il quinto e il settimo posto. Oggi ci ritroviamo con un’asse Sirigu – N’Koulou – Baselli – Belotti. Roba che, potenzialmente, non si vedeva dai tempi del primo Toro del Mondo. Un’ulteriore ragione per arrabbiarsi quando poi si fanno i conti della serva – scusate il termine poco tecnico – e si preferisce essere sicuri di chiudere il bilancio in attivo piuttosto che prendersi dei piccoli rischi per completare la squadra. Qui sorge un problema enorme, l’ambizione. Perché per fare veramente il salto di qualità, l’importanza delle Coppe Europee è doppia: è un’attrattiva per i giocatori, ma anche un grande contributo di fatturato e di immagine. Permetterebbe, insomma, di dipendere in misura minore da quelle plusvalenze che creano un circolo vizioso riassunto da una frase: stabilità nella mediocrità. Per rompere il cerchio e raggiungere questo obiettivo è però necessario, appunto, prendersi un rischio. Un rischio che la società non sembra mai essere stata veramente propensa a far proprio, nonostante i proclami. Forse, essere chiari una volta per tutte su quali siano realmente gli obiettivi e la dimensione a cui aspira il Presidente, e spiegare le modalità con cui vuole raggiungerli, permetterebbe quantomeno di allentare la tensione e la frustrazione di una parte di tifosi che, nell'ultimo biennio, stanno lentamente ma inesorabilmente avvicinandosi al punto di rottura.
Parole - Chiudiamo come avevamo iniziato, scrivendo di parole e comunicazione. Davanti a quanto riassunto sino ad ora, certe parole di Cairo sembrano, a volte, una sfida nei confronti dei tifosi. È una frase forte, ma forse qualcuno dovrebbe consigliargli, quantomeno, di evitare di fare affermazioni come quella rilasciata a Bormio. È paradossale dire che quella di questo mese sia stata, sino ad oggi, la più importante campagna acquisti di sempre, riferendosi per tre quarti a giocatori arrivati la scorsa stagione, fallimentare, in cui per altro le plusvalenze hanno pesato per 70 milioni sul fatturato. Gli arrivi sono tre, due dei quali difficilmente rientrano nel novero dei titolari. Uno è arrivato grazie ad uno scambio alla pari con l’ultimo significativo prodotto del vivaio granata, Barreca. A destra, dopo De Silvestri, il nulla, e la parte più vulnerabile di questa formazione appaiono essere proprio quei due esterni di difesa tanto fondamentali per il gioco di Mazzarri. Certo, manca ancora un mese,c’è una rosa da sfoltire e le somme si tirano alla fine. Alcune dichiarazioni, però, davanti ad una piazza sempre più in subbuglio, un uomo di comunicazione dovrebbe saperle evitare. Il rischio, altrimenti, è quello di spingere sempre più tifosi, anche tra i moderati e miti, a ricordare le vecchie promesse non mantenute di quel lontano 2005, con conseguenze che San Girolamo ci ricordava millecinquecento anni fa.
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