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Le Loro storie, Benoit Cauet: “Le corse per strappare un applauso io non le facevo”

Esclusiva / Giocatore di quantità o di qualità? "Delle pagelle me ne fregavo, il mio stimolo era il ruggito dello stadio"

Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Il fiato non gli è mai mancato, ma forse, nonostante i trofei e il rispetto di tanti campioni nello spogliatoio, Benoit Cauet verrà ricordato con la riduttiva etichetta di "giocatore di quantità". L'ex centrocampista di Inter e Torino, con eleganza transalpina, passa oltre, ma ci lascia una testimonianza onesta e ruvida di quello che è il Cauet-pensiero. E in questo, oltre che di quantità, ci va pesante anche con la qualità.

"Non sono mai stato un giocatore da 8, né uno da 4 in pagella. Per tutta la carriera sono rimasto nel mezzo, costante e alla continua ricerca di spostare in avanti i miei limiti. Non mi riconosco qualità particolari, ma d’altronde soltanto qui in Italia etichettate i calciatori in base a un singolo punto di forza. ‘Questo è uno che corre, quell’altro è uno che dribbla, quello calcia bene le punizioni’. Secondo gli esperti di calcio, gente che magari non ha mai nemmeno sfiorato un pallone, tu sei capace di fare una sola cosa. Succede solo in Italia.

"Io ho avuto la fortuna di giocare in grandi club e con grandi campioni che mi hanno fatto crescere. Non ho mai badato alle etichette, a chi mi definiva un giocatore “di quantità”. Sono andato avanti per la mia strada, a qualcuno piacevo, ad altri no. Pazienza. Penso che per arrivare a certi livelli serva un mix di tante cose: il fisico, la tecnica, la tattica. Non puoi averne solo una, altrimenti fai poca strada. Dire, per esempio, che Seedorf non corresse mi sembra ridicolo. C’è modo e modo di correre: qualcuno corre quando ha la palla, qualcuno quando non ce l’ha. C’è chi corre per smarcarsi, chi per rincorrere un avversario. Clarence aveva era bravo con la palla tra i piedi. Per cui la chiedeva ed è giusto così.

 3 Mar 1999: Paul Scholes of Manchester United clatters into Benoit Cauet of Inter Milan during the UEFA Champions League quarter-final first leg match at Old Trafford in Manchester, England. United won 2-0. Mandatory Credit: Clive Brunskill /Allsport

"Poi ci sono quelli che fanno gli scatti inutili, per avere l’applauso del pubblico. Mai fatti io. Non sono il tipo, non sono paraculo. Non vuol dire che quel calciatore non sia un bravo professionista, semplicemente è uno che cerca a tutti i costi di dimostrare che lui in campo dà il 150%. Io se vedevo che una palla era destinata a uscire non mi buttavo in scivolata per fare spettacolo. Serve anche quello, però, l’ho imparato. Per tre anni ho girato il mondo insieme ai giornalisti e ho conosciuto un punto di vista diverso. Il punto di vista di persone competenti e appassionate, ma che certe volte si fanno influenzare dai gesti eclatanti. Ho capito che quegli scatti disperati a qualcosa servono: ad alzare il voto in pagella. In Francia i voti ai giocatori sono molto più bassi e, soprattutto, i giudizi sono argomentati e tengono in considerazione tutti i 90 minuti. Se per tutta la partita non tocchi la palla e poi fai due gol, in Italia prendi un 8. In Francia no. La valutazione è meno emotiva, qui invece è spinta all’eccesso. O forse siete semplicemente più generosi…

"A proposito di correre, al Toro si correva parecchio. Fu Sandro Mazzola a volermi prima all’Inter e poi a portarmi a Torino e chi meglio di lui poteva spiegarmi cosa significasse giocare per questi due grandi club? Persona fantastica, Sandro, gli sono molto grato. Lo spirito Toro non è solo retorica. Ve lo dice uno che la prima partita che giocò con la maglia granata fu il derby del 3-3. Arrivato da nemmeno una settimana, esordio contro la Juve, catapultato dentro il dramma di un primo tempo finito 3-0. Ma in quella squadra c’erano tanto giocatori a cui non serviva ricordare di correre e un grande, grandissimo mister. Lo spirito Toro, l’importanza della sua storia, i grandi campioni, le perdite tremende: ho capito tutto da solo in quei secondi 45 minuti. È stato incredibile perché percepivo che qualsiasi sarebbe stato il risultato finale, la gente era lì con noi, era pronta a sostenerci.

"Quando giocavo, di quello che scrivevano i giornalisti mi fregava poco. Certi miei compagni usavano le critiche come stimolo, io volevo solo aiutare la squadra e migliorare me stesso. L’opinione che mi interessava era il rombo dello stadio pieno, quello era il mio stimolo. Sono cresciuto nelle giovanili dell’Olympique Marsiglia, per cui per me era il massimo entrare al Vélodrome davanti a 60.000 persone con la prima squadra e lottare per portare a casa tutti i titoli possibili. La tifoseria dell’OM è non calda, di più. La pressione mi è sempre piaciuta, mi ha aiutato in carriera. Per motivare un giocatore non esiste un metodo giusto. Con qualcuno devi usare le maniere brusche, a certi serve solo una carezza, altri hanno bisogno di uno zuccherino. O magari una minaccia del tipo ‘non giochi per sei mesi’. Con me i rimedi pesanti non sono mai serviti, non ne avevo bisogno. Probabilmente i giocatori “di quantità” non hanno di questi problemi…

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