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Portici e geometri

Può sembrare difficile immaginarsi ciò che doveva essere il calcio...

Redazione Toro News

Può sembrare difficile immaginarsi ciò che doveva essere il calcio italiano nella cosiddetta età dei pionieri, una realtà non professionistica dove giocatori e società vivevano completamente immersi nella quotidianità cittadina. Ritrovi, sedi e campi di gioco non costituivano un mondo a parte, separato dal resto della città, ma ne erano elementi comuni, contigui a tutti gli altri e ben inseriti nella vita urbana. Il Toro, nei suoi primi vent'anni di vita, fu ben presente e radicato in quella via Pietro Micca in cui venne fondato. Nei primi anni del '900 giocatori e dirigenti s'incontravano abitualmente all'albergo ristorante Fiorina – all'angolo tra via Pietro Micca e piazza Solferino, dove già si trovava la birreria Voigt – occupando i primi tavoli all'entrata.  I granata non ne erano però gli unici frequentatori: al Fiorina era di casa anche la Juventus, che sfilava ogni volta davanti al Toro per raggiungere il grande salone dove era solita radunarsi. Un luogo veramente singolare, dove anche i camerieri tifavano, favorendo gli uni o gli altri. In mezzo il direttore, Gioberge, a fare il pompiere e riappacificare gli animi. Una situazione difficilmente immaginabile oggi.    Il recapito postale del Toro era invece all'Hotel Bonne Femme, all'inizio della via, vicino piazza Castello. Così è particolarmente suggestivo pensare al viavai granata lungo via Pietro Micca, tra lettere inviate e ricevute, comunicazioni da dare alla squadra e informazioni da inviare alla Federazione e alle squadre di altre città. Giocatori e dirigenti ne percorsero i portici almeno fino al 1929, quando la società entrò nella nuova sede di via Alfieri (che sarà ricordata come quella di Ferruccio Novo e del Grande Torino).   Per ammirare il Toro in azione si doveva percorrere corso Re Umberto fino in fondo, al Velodromo. Qui si trovava il campo dove i granata giocarono le loro prime partite, almeno fino al 1910. Nonostante fosse stato pensato come impianto dedicato alle gare ciclistiche, il Velodromo Umberto I aveva già visto disputarsi, sul proprio terreno, partite importanti: proprio qui, infatti, l'8 maggio 1898 davanti a un centinaio di spettatori si giocò il primo campionato di calcio italiano, voluto per i festeggiamenti del cinquantennale dello Statuto Albertino. Dieci anni dopo per le partite casalinghe del Toro non si ebbero maggiori successi di pubblico: la tribuna del Velodromo rimase spesso vuota o semideserta, i pochi tifosi granata (due o trecento, ricordano i testimoni) preferivano seguire la partita da bordo campo, assistendo alle gare immobili, silenziosi e – quasi fossero a teatro – sottolineando con applausi il proprio compiacimento. Dopo i primi 45 minuti i calciatori si stendevano sul prato per riposare, mentre, con fette di limone in bocca, recuperavano energie. Anche il pubblico approfittava dell'intervallo per poter entrare in campo e sedersi a fianco della squadra (di spogliatoi veri e propri ancora non se ne parla: al Velodromo esistevano solo due sgabuzzini in legno, sotto la tribuna).   Calciatori e pubblico vivevano la quotidianità della squadra in una dimensione condivisa. La domenica in campo o durante qualche serata al Fiorina, giocatori e tifosi scambiavano opinioni sulle partite giocate e quelle da giocare, su tattiche e avversari, concedendosi anche qualche goliardata. Il calcio dell'età dei pionieri – è da ricordare – non era uno sport professionistico: tra i calciatori dei grandi club non era quindi inusuale trovare commercianti, ricchi borghesi (in grado di pagarsi le trasferte all'estero) o anche solo dipendenti di imprenditori facoltosi e appassionati di calcio (è il caso di Bollinger, che seguì Dick dalla Juventus al Torino). Dei giocatori che vestirono la maglia granata in quegli anni Enrico Debernardi fu tra quelli maggiormente applauditi dai primissimi tifosi del Toro. Classe 1885, ala destra, Debernardi, geometra torinese di San Salvario, debuttò nel mondo del calcio con la squadra del suo quartiere, l'Audace. Passato poi all'F.C. Torinese confluì, come molti suoi compagni di squadra (tra cui Vittorio Pozzo), nel Torino passando alla storia come uno dei 23 fondatori. Giocatore veloce, dal tiro secco, sapeva dribblare nello spazio stretto, cercando di ingannare l'avversario con l'astuzia e la tecnica; da buon innamorato della palla – va ammesso – ogni tanto esagerava. Con il Torino giocò un centinaio di partite di cui però solo una quarantina in campionato. Il 10 Maggio 1910 all'Arena Civica di Milano fu tra gli undici che indossarono la maglia (allora bianca) della Nazionale italiana per la prima partita della sua storia: Italia Francia 6 a 2. Fu proprio lui, al minuto 82, a insaccare il gol del momentaneo 5 a 2. Allegro e spiritoso, Debernardi era un vero uomo spogliatoio: si ricordarono a lungo le sue battute e le canzoni con cui faceva divertire la squadra nelle cene sociali al Fiorina (cene, il cui piatto forte erano le anatre cacciate sul lago di Viverone, offerte dal Presidente Secondi). Da buon giocatore granata, infine, andò sempre fiero del numero di derby vinti: 14 su 18, una media invidiabile.   Persone diverse, provenienti da Stati e ambienti sociali diversi ma accomunate da un'unica passione, il calcio, trasversale a ogni categorizzazione sociale o nazionale: questo era il Torino negli anni della Belle Époque. Anni in cui il calcio era “a portata di mano”, in cui tutto si svolgeva sotto gli occhi di tutti nella dimensione “domestica” della quotidianità urbana, tra locali eleganti e campi di periferia. Anche questo è il fascino dell'età dei pionieri.   Roberto Voigt