columnist

L’occasione sprecata dal Qatar

Anthony Weatherill

Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "Nei miei sogni più arditi, e forse esageratamente ingenui, auspico un tempo dove le tradizioni saranno riaffermate da chi le ha custodite da sempre"

"“Per ogni fine c’è un nuovo inizio”

"Antoine de Saint-Exupery

Mi è capitato, nel corso della mia esistenza, di frequentare assiduamente il mondo medio orientale, un mondo che ha come caratteristica principale, tanto da diventarne l’architrave di ogni gesto e di ogni decisione, una struttura socio/economico a carattere teoculturale. Non si tratta, in questa sede, se condividere o meno questo stato di cose, si tratta di prenderne atto per il prosieguo di un ragionamento. Da quando tengo questa rubrica, una delle questioni su cui sovente ho insistito è il carattere originario comunitario e metafisico del calcio, tanto da non potersi rubricare come una semplice pratica sportiva. Per molto tempo questo carattere originario è rimasto intatto, nonostante dal secondo dopoguerra in poi la società occidentale, sempre più dominata dal modello americano, abbia cominciato ad avere una cesura significativa con tutto ciò che l’aveva influenzata culturalmente fino a quel momento  Nella società postmoderna dell’occidente, definita non a caso “liquida” da Zygmunt Bauman, tutti siamo diventati, molto rapidamente, soggetti consumatori tesi forsennatamente, e passivamente, a standardizzarci in schemi comuni. Ovvero, secondo Bauman, l’unica cosa temuta dall’uomo occidentale postmoderno è quella di non essere accettato come consumatore. Una condizione, questa, che lo ha posto in una situazione sempre più di disagio(alienandolo) rispetto alle proprie radici naturali, fino a provocarne un allontanamento che sta assumendo sempre più le sembianze del definitivo. Marcello Veneziani, nel suo ultimo splendido lavoro “Nostalgia degli dei”, ha rilevato come in occidente al posto delle idee e degli ideali  stia trionfando “il puro vitalismo”, la cui conseguenza ha portato l’uomo occidentale a liberarsi dalle idee e dal loro antefatto, gli dei, e finendo per asservire “la vita alla paura di morire e comunque di perderla. La libertà assoluta muta in schiavitù”. Con la sconfitta delle idee, secondo Veneziani, “non resta che tornare all’Inizio, ripartire dalla loro origine. Restituire le idee alla loro origine metafisica di dei”.

In questa esposizione, a mio parere abbastanza veritiera, di una civiltà occidentale dimentica di sé stessa, ho dovuto, molto a malincuore, inserirci anche la parabola da sport a spettacolo costretto sempre più a subire il calcio. Quando nel 1983 il Tottenham decise, prima squadra di calcio nella storia, di quotarsi alla borsa di Londra, Matt Busby, leggendario allenatore e fondatore del mito del Manchester United, ebbe un commento amaro e profetico: “questo è l’inizio della fine del calcio”. Il commento di Busby era una certificazione definitiva sulla resa dell’idea del calcio al meccanismo feroce e mai sazio del denaro, invero cominciato nel 1979, allorché il Liverpool aveva deciso di vendere alla Hitachi lo spazio rosso immacolato della sua maglia per la modica cifra di centomila sterline annui.  Quello spazio pubblicitario, che aveva avuto il potere di trasformare i calciatori in “uomini sandwich”, era il capolinea dell’Idea come padrona del calcio, sostituita dal denaro come fine ultimo di ogni cosa. Il calcio, cresciuto e fortificatosi nella metafisica e nella tradizione, stava sempre più avviandosi a vestire le sembianze dello show. In poco tempo le proprietà dei club, una volta ad esclusivo appannaggio di personalità della comunità stessa dove erano nati, passarono prima a soggetti trans cittadini, poi a soggetti transnazionali, per finire a soggetti transcontinentali. Andando avanti così, non ci vorrà molto per compiere l’ultimo passo: le società più importanti, quelle che daranno vita alla SuperLega europea, in mano alle multinazionali. E si inizi pure lo spettacolo, perché tanto di questo si tratterà.

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Quando nel 2011 la Qatar Investment Autorithy (il ricchissimo fondo sovrano qatarino) acquisisce la proprietà del Paris Saint Germain, nessuno immagina lo stravolgimento che da lì a poco avverrà nella compravendita giocatori del mercato dei club europei. Nessuno immagina come, attraverso un aggressivo doping finanziario effettuato attraverso uno dei più ricchi fondi sovrani del mondo, si stia per cambiare l’ordine naturale delle cose.  Forse si è peccato di immaginazione e capacità previsionale, perché ci si trovava di fronte ad una nuova proprietà, quella del fondo sovrano del Qatar, proveniente da un Paese dalle connotazioni culturali fortemente islamiche, dove la teocultura è un naturale caposaldo sociale. Nessuno poteva davvero supporre che un forte contributo alla spoliazione del tessuto metafisico del calcio potesse essere messo in atto proprio da uomini provenienti da un Paese dove il rapporto tra cielo e terra è prassi quotidiana, e regolata da leggi, consuetudinarie e non, ferree. “Quando si parla di economia nell’islam- ha spiegato recentemente in una conferenza universitaria il prof. Sharif Lorenzini, presidente della comunità islamica in Italia -, non si può prescindere da quelle che sono le basi fondamentali ed i principi religiosi che le appartengono. L’islam è una norma della vita stessa, è una forma che si manifesta in ogni aspetto dell’esistenza umana. La legge canonica islamica – ha puntualizzato il prof. Lorenzini – spiega chiaramente il valore dei soldi e del capitale, la relazione tra rischio, profitto e le responsabilità sociali delle istituzioni finanziarie e degli individui”. Ammetto, pur non essendo mussulmano, di essere rimasto colpito dal riferimento alle “responsabilità sociali” a cui chi occupa responsabilità nella finanza deve attenersi; una stupefacente asserzione del denaro elevato a bene comune, piuttosto che a unità di misura del merito individuale.

Un rovesciamento dell’etica protestante di Max Weber, notevole fonte d’ispirazione tutto il capitalismo occidentale, che ha posto il denaro più come segno della grazia di Dio invece di strumento di bene comune. Queste considerazioni istintive non mi hanno portato nella scivolosa via del tentare di stabilire se sia più efficace l’etica protestante di Weber o la legge canonica islamica(compito risultato improbo persino a menti infinitamente migliori della mia), ma a pormi delle inquietanti domande: cosa mai sarà successo nella testa dei dirigenti qatarini del Paris Saint Germain? Come hanno potuto dimenticare le lezioni che, immagino, hanno ricevuto nelle loro scuole coraniche? Perché stanno contribuendo a destrutturare una delle poche componenti metafisiche, il calcio, rimaste nell’occidente secolarizzato e postmoderno? Quali motivazioni li hanno spinti ad essere in evidente contraddizione con i dettami della loro teocultura? Forse il virus della società liquida prefigurata da Bauman, li  “corrompe” non appena mettono piede in occidente per fare affari? E’ impressionante, almeno per me dotato di una loro buona conoscenza per lunga e continua frequentazione, vedere, nelle vicende del Paris Saint Germain, un disinvolto e spregiudicato utilizzo di risorse finanziarie che invece di avvicinare l’uomo al cielo, come aspirerebbe una società teoculturale, lo induce a ritenere sia la terra l’unico metro di riferimento. Non è forse questo il rimprovero più polemico dell’islam alla cultura occidentale, specie quella americana? Se il Qatar voleva, e vorrebbe, utilizzare il calcio come mezzo di espansione della cultura islamica nel vecchio continente, siamo presente al più classico dei casi di eterogenesi dei fini. Sarebbe stato interessante vedere nel nostro calcio un approccio etico e culturale diverso dal nostro, giusto per avere uno specchio riflettente immagini in modalità diverse dal consueto(il confronto con realtà diverse dalle nostre è sempre benefico), ma non è andata così.

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L’esempio del Paris Saint Germain, e anche quello del Manchester City, ha dimostrato che nemmeno manager provenienti da società non secolarizzate sono immuni dalla devastazione etica operante in modo progressivo nel mondo del calcio. La cosa sa di occasione sprecata. Rimangono i tifosi, gli unici davvero ancora interessati a preservare il mito, l’Idea e la tradizione. I tifosi, o almeno gran parte di essi, nel calcio continuano a difendersi, come cittadini di questo mondo, da tutte quelle forze che vorrebbero estraniare l’uomo da sé stesso. Questo tempo malsano, voglio tenacemente sperare, passerà e allora ci sarà bisogno di chi avrà i giusti elementi per ricostruire l’anima del nostro amato gioco. Nei miei sogni più arditi, e forse esageratamente ingenui, auspico un tempo dove le tradizioni saranno riaffermate da chi le ha custodite da sempre. I tifosi, come coloro che costituirono il calcio da metà ottocento, torneranno a piantare le premesse per riprendere a raccontare le gesta del gioco più bello del mondo. “Ci sono cose – ha scritto Veneziani – che sfuggono alla fisica del mondo, presenti nella loro assenza, visibili nella loro invisibilità. E sono le cose essenziali, decisive, fatali, che destinano il corso della vita, della morte, del mondo”. A me queste parole hanno ricordato il fantastico incedere sul campo di George Best. Se qualcuno ha scritto tali parole, forse non è troppo tardi per recuperare.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)