È iniziato tutto tanti anni fa: mancava un portiere e l’allenatore ha chiesto “chi ha meno paura di andare in porta?”. “Posso provare io”, ho risposto. Avevo undici anni e quella partita tra i pali mi è piaciuta e credo di non aver fatto poi così male. Ero abbastanza alto, abbastanza agile e ho capito che quello poteva essere il mio ruolo. Sono rimasto in porta, sono rimasto lì per tanto tempo, fino a maggio di un anno e mezzo fa quando ho capito che il mio corpo e la mia testa mi stavano chiedendo di smettere. Troppi problemini fisici, avevo quarant’anni e il calcio era diventato troppo veloce.
Ho alzato la mano e ho detto “basta, non posso più continuare a questo livello. Il momento giusto per smettere è ora”.
L’ultima stagione al Liverpool è stato il modo perfetto per andarsene al top del calcio mondiale, ma coi Reds ho giocato solo nel precampionato, mai in gare ufficiali, per cui la mia ultima partita è stata l’anno prima con l’Augusta. Non sapevo che poi avrei trovato ancora un contratto con il Liverpool, ma avevo già annunciato che a fine campionato avrei salutato l’Augusta, per cui nell’ultima giornata l’allenatore mi fece entrare a pochi minuti dal termine come tributo. Mentre mi infilavo i guanti ho avvertito una sensazione nuova, mai provata prima. Mi è venuta un po’ di ansia, poi una scossa e subito la pelle d’oca. “Questa potrebbe essere la mia ultima partita”, ho pensato per la prima volta in 39 anni. E così è stato.
La mia carriera è stata un insegnamento continuo per la vita, ho vissuto esperienze bellissime in Premier League, a Siena, alla Juventus, in Germania e altre più difficili, ad esempio al Toro e alla Fiorentina con tutto quel caos. In granata con tanti cambi di allenatore (il 2002/’03 è l’anno di Camolese-Zaccarelli-Ulivieri-Zaccarelli-Ferri, ndr), con la Viola per la questione societaria (la Fiorentina di Cecchi Gori prima retrocessa e poi dichiarata fallita, ndr). Fu difficile da affrontare perché io mi lasciavo coinvolgere dalle situazioni al 100%, mettevo tutto me stesso e quelle cose ti tagliano le gambe. Tu lavori, vai all’estero, riesci a crearti un bell’ambiente intorno, anche con la gente, immagini già di poter restare qualche anno e poi le cose precipitano. Peccato, ma io mi prendo tutto, nel bene e nel male perché gli aspetti positivi sono utili ad avvicinarti ai problemi della vita vera.
Al giorno d’oggi ci sono ragazzini che a 18, 19 o 20 anni sono già dei professionisti, si sentono i migliori di tutti e invece non hanno ancora fatto due parate o due tiri in porta. Gente che non ha mai sporcato le scarpe, che non ha mai avuto una verruca. Il calcio è diventato mercato, la professione vale meno, il ruolo vale meno. Contano le foto, il taglio di capelli, le auto. Avrei potuto continuare ancora un po’, ma questo non è il mio calcio, non mi riguarda, per cui a quarant’anni la decisione di mollare tutto è stata semplice e non me ne pento di certo. Forse per questo non faccio l’allenatore, perché troverei difficile convivere ogni giorno con queste nuove generazioni. Noi, quando perdevamo, tornavamo in campo a correre. Ci portavano anche nei boschi a correre per punizione. Oggi se provi a far correre una squadra per due volte a settimana, i giocatori non vengono più ad allenarsi, fanno sciopero. È pazzesco.
Prima di diventare calciatore ero un falegname. Quando ho smesso col pallone ho ricominciato da lì: ho traslocato con la mia compagna, ho costruito i mobili della casa nuova, mesi e mesi di fatica e non abbiamo ancora finito. Mi sono divertito tantissimo e quando ora mi chiedono se non mi annoio senza giocare, io dico “proprio no, le cose da fare non mi mancano”.
È bello avere più tempo per me e per lei. Il calcio mi ha fatto lasciare da parte molte cose, ma adesso la mia prossima gara sarà la partita della famiglia: costruirci un nido, trovare soddisfazione dalle giornate normali, fare un figlio o più di uno.
Sto girando pagina, anzi, sto cambiando proprio libro.
E sono davvero molto curioso.
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