Io e mio fratello minore siamo nati a Losanna, il maggiore in Kosovo. I nostri genitori sono Kosovari, ma non ho da raccontare una storia strappalacrime legata alla guerra perché, per nostra fortuna, ci trasferimmo in Svizzera prima che iniziasse, seguendo il lavoro di papà. Mio padre non capiva granché di calcio, ma ci mandò a giocare soltanto per toglierci dalla strada e farci passare un po’ di tempo. Ora si ritrova con due figli calciatori (oltre a Migjen, il più piccolo dei tre, Vullnet, gioca da centrocampista nel Wisla Cracovia, ndr) e un terzo che passa il tempo a commentare le nostre prestazioni. Non vede l’ora di criticarci e potrebbe benissimo fare il capo ultras di qualche tifoseria. Da piccoli eravamo scalmanati, delle vere teste di cavolo. Una volta, cercando di rincorrere gli altri due, sfondai una porta a vetri e rischiai di tagliarmi le vene di un braccio. Un altro giorno scesi con uno slittino da una montagna innevata, ma mi ci sdraiai di pancia e quando quello si fermò di botto io mi spaccai il mento. Sono stato un bambino felice con un’infanzia assolutamente normale, direi. Ma non chiedetemi chi è più forte tra me e mio fratello. La mia risposta è: nessuno dei due, altrimenti saremmo al Real Madrid!
I ricordi più belli di questi trentun anni sono tre. Due sono col Toro: la promozione in A e l’anno della qualificazione in Europa League. Aver fatto parte di quel gruppo e aver dato una mano a raggiungere quel traguardo per me rimane impagabile e anche se magari qualcuno non si ricorda di me, io vivrò sempre di quei momenti. Poi la qualificazione all’Europeo con la Nazionale Albanese, altra emozione immensa.
In assoluto – perché non c’è solo il calcio nella vita – la nascita di mia figlia. Lei mi ha fatto capire tante cose e mi ha cambiato tantissimo.
A distanza di tanto tempo ormai continuo a ricevere messaggi e lettere da parte dei tifosi del Toro che mi ricordano con grande affetto e per me vale lo stesso sentimento nei loro confronti. L’unica macchia legata al Toro è legata al modo in cui sono stato mandato via.
Ho dato tutto per tre anni ed ero apprezzato, tanto che si stava già parlando del mio rinnovo. Sul finire della terza stagione mi feci male. Il recupero andò per le lunghe e nonostante la stagione successiva Ventura mi avesse consegnato la fascia di capitano e fosse arrivato anche un bel gol contro il Parma, giocai pochissimo, ma, ancora peggio, avevo già capito che il mio tempo in granata era scaduto.
Avevo giocato otto mesi con un piede dolorante. Facevo infiltrazioni di cortisone ogni due o tre settimane soltanto per poter correre. Alla prima visita medica, lo staff del club disse che non avevo nulla. “Sono venti giorni che il dolore si è acuito e non accenna a passare – insistetti –. Possiamo fare altri controlli?”. “No – ribadirono –, non hai nulla”. Io dovetti fermarmi completamente, non riuscivo più nemmeno a camminare. Chiesi di essere visitato da qualche specialista, risposero “se vuoi, vacci pure a tue spese”. Si trattava della mia carriera e della mia salute, per cui andai in Germania. Scoprirono un infortunio grave alla fascia plantare che richiedeva un intervento chirurgico. Mi operai, pagando tutto di tasca mia.
Il luglio successivo, al momento dell’inizio del ritiro, non avevo ancora ripreso del tutto. La società mi disse che potevo andare dove volevo a curarmi. Andai a Bologna, sempre a mie spese, poi a ferragosto, con tutto il gruppo in congedo per tre giorni, io scelsi di rimanere in Sisport per continuare ad allenarmi. Un giocatore professionista, per contratto, quando è a disposizione di un club dovrebbe sempre avere un dottore o un fisioterapista a seguirlo. Il Torino non mi mandò nessuno, rimasi tre giorni a fare esercizi per conto mio.
Per cui fin da quell'estate sapevo che la società non voleva più rinnovarmi il contratto. Scelta legittima, i giocatori vanno e vengono e forse io avevo concluso un ciclo. Ma per capire le intenzioni del Torino in anticipo di un anno, non mi servì essere veggente: mi bastò rialzare la testa da quel piede dolorante e guardarmi intorno. Ero solo.
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