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loquor

Diego Armando Maradona e il mistero del calcio

Torna un nuovo appuntamento con "Loquor" la rubrica di Carmelo Pennisi

“L’opera di certi geni hanno

un fine che la motiva”.

Jorge Valdano

“La tocca per Diego, ecco, ce l’ha Maradona. Lo marcano in due, tocca la palla Maradona, avanza sulla destra il genio del calcio mondiale. Può toccarla per Burruchaga… sempre Maradona… genio, genio, genio… c’è, c’è, c’è… goooooool voglio piangere… Dio Santo, viva il calcio”. A cinquanta chilometri a nord di Città del Messico c’è’ Teotihuacan, un luogo dove per le antiche civiltà pre colombiane “gli uomini diventano Dei”, e dove il cielo si perde fino ad un sottoterra solcato da inestricabili file di gallerie e cunicoli, inginocchiando alla paura o al mistero ogni sogno possibile. Siamo oltre i duemila metri sopra l’altezza del mare, dove tosse secca e respiro affannoso la fanno da padroni anche dopo una semplice camminata di qualche decina di metri. Sono i rischi corsi dalla terra ogni qual volta prova ad avvicinarsi al cielo, considerato come seppur gli uomini siano simili agli dei  non sono dei. Vero è che ogni tanto lo dimenticano,e quando questo succede persino gli dei possono rimanere ammirati da cotanta audacia e aiutano a consegnare al mito le storie impossibili di uomini e donne venuti al mondo evidentemente per provare a volare. Non importa se poi la caduta sarà rovinosa, quei momenti di altitudine, di ebbrezza di battito di ali, valgono ogni ferita, ogni cicatrice, ogni giudizio malevolo. Dio sa la verità, e tanto basta per restare tranquilli o per temere, il resto è storia di uomini.  “è il gol che ho sognato tutta la mia vita”, raccontò un giorno Diego Armando Maradona a proposito di quei dieci secondi più famosi della storia del calcio, attimi sincronici di tempo dove il cuore di una intera nazione si ferma in una “Parada”(una sospensione) sotto il tacco di un tanguero e il ginocchio piegato in avanti della sua compagna di avventura, in attesa del disegno della prossima coreografia impossibile da immaginare fino al momento della fine di quegli interminabili dieci secondi. “Era impossibile prevenirlo.

Quando un uomo sta facendo la storia, niente e nessuno può interferire. Tutto è allineato”, racconterà in seguito Jorge Valdano, l’uomo che corre accanto a lui almeno sei di quei dieci secondi.“Lui era il mio punto di riferimento, ed io con un gesto sono stato chiaro: vado ad infilare il portiere”, dirà in seguito Maradona con tono grato per quella presenza passiva/attiva del compagno di squadra, celebre attaccante del Real Madrid, ma determinato ad attraversare il Rubicone della leggenda. Valdano è un vero signore del calcio, un innamorato del gioco, e non ha mai mostrato risentimento per un passaggio mancato che inevitabilmente lo avrebbe messo davanti alla porta inglese e con un gol facile da segnare. Anzi, ha sempre ringraziato Dio di aver potuto assistere da vicino ad uno di quei momenti in cui la terra si incontra con il cielo. Quando sei illuminato dalla grazia e dalla bellezza, la tentazione è di polverizzare ogni cosa sulla terra, divenuta troppo poco e insopportabile anche nel godimento dei piaceri effimeri: “confesso che dopo aver visto quell’azione e quella rete avevo anche pensato di smettere”, scrive Valdano in uno dei suoi magnifici libri sul calcio, redatti dopo aver appeso le scarpe al chiodo. “Pensate- si è detto – se ci fosse stato il VAR: niente epica, niente geniale rivincita dei più deboli. Con il domino della tecnica, Dio è morto”, ma pochi minuti prima del “gol del secolo” il mistero ancora circolava tra noi, e non poteva che riproporsi proprio nello stadio più metafisico del mondo,l’Atzeca, dove 16 anni prima Italia e Germania avevano dato vita ad una semifinale mondiale prolungatesi in dei tempi supplementari dove l’altitudine impossibile prometteva più morte che vita: una targa su un lato dello stadio oggi ricorda come quella fu la partita del secolo. Per quanto persino Martin Heidegger avesse dichiarato il rischio della morte di ogni trascendenza a causa della tecnica, Dio rimane sempre quello proteso a tendere la sua mano ad Adamo affrescato nella volta della “Cappella Sistina”.  “Stiamo venendo a prendervi pirati”, era stato il titolo grande quanto il risentimento degli argentini verso gli inglesi di “Cronica” alcuni giorni precedenti la partita. Ecco perché il gol di mano, passato alla storia come “la mano di Dio”, fu accolto in tutta l’Argentina come la decisione del Creatore di restituire della giustizia non scontata, ma sempre sperata. “Fosse stato per gli argentini- racconterà Maradona -, saremmo dovuti uscire tutti con la mitragliatrice.

Ma quello che io volevo era fargli un bel sombrero, un tunnel, fargli girare la testa”; è il calcio “gaucho” a muovere il cuore e l’istinto di Maradona, quella fusione tra strada, barrio e milonga a dare bellezza e calcio negli stinchi alla vita grama. Una nazione vuole un po’ di pace da quel dolore per quei 323 marinai di leva finiti in fondo all’oceano insieme all’incrociatore “General Belgrano”, colpito da tre siluri da un sommergibile nucleare della flotta di Sua Maestà, la regina d’Inghilterra. Sono passati quattro anni da quel giorno, e ora, dopo il gol di mano del loro fuoriclasse, da Buenos Aires alla Pampa fino alla fine del mondo della Patagonia, sono certi che qualche altra cosa stia per accadere: non è forse Maradona quello sbarcato a Napoli per sfidare la Juventus? “Hai idea – disse, divertito, in una intervista/documentario a Emir Kusturica – cosa vuol dire in Italia sfidare la squadra e il potere degli Agnelli”? C’è un caldo intenso e un’aria più rarefatta che mai (l’altitudine è proprio quella degli dei), quando Hector Enrique, controverso centrocampista del “River Plate”, da il via all’incanto di quei mitici dieci secondi, passa la palla a Maradona e tutto il mondo sta per assistere al mistero tradotto nella realtà. “La tocca per Diego”…, rimbomba nella mente quell’incipit di Victor Hugo Morales, l’Omero che sta per cantare l’ennesima “Iliade” degli uomini, e l’Inghilterra va a sgretolarsi davanti al “Barrilete Cosmico”(aquilone cosmico) volato via dalle polverose strade di Villa Fiorito alla conquista del mondo. Hoddle, Reid, Sansom, Butcher, Fenwick, e Shilton(il portiere) vengono “dribblati” neanche fossero dei ragazzini del settore giovanile durante una partita di allenamento, e il “numero dieci” Albiceleste va a depositare una palla in rete che rimarrà per sempre nel cuore e nell’anima di ogni generazione di argentini. L’umiliazione e il dolore sono spazzati via in un attimo come solo il calcio sa fare, e anche se niente potrà restituire la vita persa in fondo al mare di 323 giovani, è il diritto di sorridere ad essere restituito. Solo chi non ha mai provato un dolore grande può sottovalutare ciò. La foto che immortala Maradona mentre sta per superare Shilton pare uscire da una sincope da videogioco, il suo viso da “futbolista de potrero”(calciatore di strada) si è trasfigurato in quello di una sua statuina stilizzata venduta nei rioni di Napoli e si capisce come Shilton, uno dei più grandi portieri della storia del calcio inglese e mondiale, niente potrà fare per impedirgli l’appuntamento con il destino. Poi c’è la corsa, inseguito dai compagni, verso la bandierina del calcio d’angolo con le dita ad indicare il cielo, mai così vicino, e a quel punto non c’è casa argentina dove non sia scesa una lacrima. Li aveva piegati, gli inglesi, con l’astuzia di Ulisse e con il coraggio di Ettore, e con la rivoluzione compiuta a quel punto forse la sua vita da leggenda era giunta se non al suo epilogo, certamente al suo apogeo. “Il calcio aveva detto tutto –scrive ancora Valdano-, perché tutto quel che faceva su un campo di calcio era al di là dell’immaginazione e della ragione. Mi fanno ridere quelli che lo mettono a confronto con Messi.

Messi gioca con i due-tre metri di vantaggio del calcio moderno. Vorrei vedere Maradona con quei metri di vantaggio quanti altri gol avrebbe fatto. Confesso che dopo aver visto quell’azione e quella rete contro l’Inghilterra di aver pensato di smettere”. Ho ripensato a quel gol e a quell’avvenire eterno continuamente spalancato davanti a noi mentre guardavo la volta della Cappella Sistina, alla fiducia che il Creatore, da qualche parte nel cielo, continua ad avere in noi e nelle nostre possibilità. Da persona del sud mi ritorna in mente quel suo essersi dato alla squadra simbolo del meridione Italia, convincendola, e convincendoci, che non c’è destino gramo e ineluttabile al quale arrendersi, e rendendoci fieri. Quasi piango nel ripensare alla sua ultima immagine pubblica, in cui, sorretto da due persone perché non riusciva più a camminare, da lontano prometteva ad un bambino che domani gli avrebbe raccontato un po’ di football. Quel domani si è fermato il 25 novembre del 2020, e ti chiedi cosa rimarrà di quei 60 metri percorsi in dieci secondi, dei 6 avversari superati e dei quindici tocchi di palla. Forse consapevolezza e istinto, l’invito ad iniziare un percorso anche senza conoscere il modo di come portarlo a compimento. Certo, c’è sempre un imprevisto dietro l’angolo, ma bisogna avere fiducia. “La tocca per Diego…”, e tutto comincia.


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