E come andava a finire? In genere il Torino si limitava a rimbeccare i giocatori colpevoli con piccoli gesti bruschi: colpi, calcetti, spallate, da intendere come veri e propri ammonimenti da parte di un team che sapeva, aveva visto, non perdonava facilmente gli sgarri subiti e sarebbero stati novanta minuti di pura tensione, da parte degli avversari, perché stavolta la partita si sarebbe giocata a casa dei granata, cinti e asserragliati da un polmone di migliaia di tifosi torinesi fieri e rabbiosi e pronti a tutto.
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La tradizione di segnare i nomi dei cattivi alla lavagna ubbidiva più a uno spirito goliardico che non a una questione di onore ferito da vendicare, scenario che si rifletteva nel gioco della squadra stessa, mai per un momento resasi colpevole di gesti o atteggiamenti antisportivi particolari. Nato come mero divertissement, divenne comunque un modo per "cementare lo spirito di gruppo, di dare compattezza alla squadra, ai suoi intenti", come scrive giustamente Franco Ossola nel suo libro Il Torino dalla A alla Z.
Per undici anni Ferrini guidò la squadra del Torino con un impegno e un'abnegazione esemplari, mettendo a punto un playmaking di proverbiale efficacia. D'indole mite e ritrosa fuori dal campo, era capace di mutare pelle non appena il fischio dell'arbitro segnava l'avvio del match, e allora la sua grinta non conosceva freni o inibizioni di sorta, il suo fiuto per le tattiche vincenti aveva la meglio e il suo polso fermo stimolava la squadra a lottare senza risparmiarsi, proprio come il toro immortalato nello stemma che tutti si facevano vanto di portare. Per tutto il tempo in cui dedicò le sue energie a portare lustro alla squadra, la Diga fu uno dei punti di riferimento più autentici e celebrati dai tifosi, omaggiato in continuazione con tributi, speranze e lodi a non finire.
Angelo Cereser, storico difensore granata degli anni '60-70, lo ricorda con la tipica commozione di chi abbia conosciuto da vicino una persona leggendaria perché umana fino al midollo: “Ferrini era una persona che nel momento del bisogno, di qualsiasi tipo in campo e fuori, te lo trovavi vicino ancor prima che tu te ne potessi accorgere. Era già lì, non c’era bisogno neanche di parlare".
Pochi mesi dopo il suo ritiro dal campo da gioco, Ferrini fu colpito da emorragia cerebrale e l'8 novembre 1976 morì all'età di 37 anni. Non fatichiamo a immaginarcelo, Giorgio, in qualche antro poco noto dell'universo, intento a radunare la squadra degli Invincibili attorno a una lavagna d'ardesia sulla cui superficie saranno impressi i nomi a caratteri cubitali dei cattivi di turno, ai quali far capire che scherzare con il Torino è un po' come attraversare la strada col rosso senza curarsi di guardare né a destra né a sinistra: un gesto di sfida che non porta mai bene.
Laureato in Lingue Straniere, scrivo dall’età di undici anni. Adoro viaggiare e ricercare l’eccellenza nelle cose di tutti i giorni. Capricorno ascendente Toro, calmo e paziente e orientato all’ottimismo, scrivo nel segno di una curiosità che non conosce confini.
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