Toro News
I migliori video scelti dal nostro canale

LOQUOR

Il mio 4 maggio

Il mio 4 maggio - immagine 1

Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Loquor", a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

“Si vede bene solo

                                                                                                 con il cuore”.

Antoine de Saint-Exupery

“Tu cosa vuoi, Buddy”?,  chiede il nonno al suo nipotino inquieto, in una delle scene più toccanti dello splendido racconto di “Belfast” che ci fa Kenneth Branagh: “ogni sera, prima di andare a dormire, quando dico le preghiere chiedo a Dio se riesce a fare in modo, quando mi risveglio la mattina, che io sia il miglior calciatore del mondo. E poi gli chiedo anche se da grande posso sposare Kathryn… ecco cosa voglio io”. Amare qualcuno e amare fare qualcosa, ecco cosa chiede il piccolo Buddy a Dio.

E forse il segreto di ogni cosa sta proprio qui, “nell’accontentarsi” di amare le cose, anche quelle più inspiegabili e capaci di stordirci per il dolore che ci arrecano. All’ approssimarsi del 4 maggio ogni volta mi chiedo cosa si vada a ricordare e ad onorare alla Basilica di Superga. Tendenzialmente l’idea sarebbe quella di non dimenticare, come se poi, per un tifoso del Toro, potrebbe mai essere possibile dimenticare quel che accadde lì in quel tardo pomeriggio del 4 maggio 1949. Quando ero bambino lo vedevo negli occhi degli anziani o dei bambini ormai diventati adulti: era orgoglio, disperata nostalgia e lacrime trattenute a stento.

LEGGI ANCHE: Egemonia e futuro

Ero un bambino di fine anni ‘60 e inizio anni ‘70 e, come tutti i bambini, non capivo niente con la ragione, ma solamente con l’istinto e la volontà scaturita dal desiderio. Mio padre tifoso del Milan e di Gianni Rivera, il mio amatissimo nonno materno tifoso interista, mio fratello più grande inebriato dalle vittorie juventine, mia madre agnostica e mia sorella un frugoletto eternamente imbronciato (in seguito sarebbe diventata del Toro). Ed io… io non sapevo ancora proprio cosa volevo; parlavo poco, anzi quasi niente, ed ero sempre sulle tracce di mio fratello. Ero determinato a fare tutto quello che faceva lui, anche a costo di vivere in una preoccupante tendenza all’imitazione. Ma la Juve… su quello proprio non riuscivo a seguirlo, era una tentazione costantemente evitata e un po’ mi faceva soffrire non riuscire a comprenderne il perché. Un bambino dell’inizio degli anni 70 non aveva gli infiniti stimoli di un bambino di oggi. Non c’erano gli smartphone con il loro accesso internet e la tv era semplicemente uno strano aggeggio che riverberava immagini e storie per poche ore al giorno e rigorosamente in presenza dei genitori, magari per difenderci dall’ombelico di Raffaella Carrà esposto a disposizione di ogni fantasia pre erotica possibile.

Come il Buddy di “Belfast” si viveva di immaginazione e incontri continui con i tuoi coetanei. Incontri dove ci si parlava, ci si odorava e ci si guardava negli occhi. Certo l’affermarsi, in Italia, di una piccola e media borghesia diffusa aveva frammentato ancora di più le differenze di censo e di possibilità tra le famiglie, e questo tra noi bambini si cominciava ad avvertire in modo preciso. C’era chi era rimasto con una fionda in tasca, e c’era chi poteva cominciare a permettersi di comprare i primi fucili elettrici che riproducevano rumori sonori dei colpi sparati. Ancora oggi ho memoria di tenui lampi di invidia a contrire in peggio il cuore. Ma il calcio era rimasto uguale per tutti e in genere si voleva vincere, o almeno così mi era stato fatto credere. Ho qualche vaghissimo ricordo di un servizio al telegiornale dove si vedeva la Nazionale Italiana rientrare dal Messico ed essere accolta da tifosi inferociti all’aeroporto con una scarica di ortaggi perché Gigi Riva e compagni avevano osato arrivare secondi ai mondiali… roba da far sorridere i bambini della seconda decade del nuovo millennio, riusciti nell’impresa di non vederla proprio l’Italia ad un mondiale.

L’imperativo categorico a vincere indirizzava forzatamente verso quelle tre squadre che con la vittoria sembrano aver fatto una sorta di patto indissolubile, ed è quasi inutile nominarle. Ma tu cosa vuoi Carmelo? A saperlo a volte cosa veramente si vuole, specie se davanti non ti si appalesano opportunità confacenti ad una visione del mondo a te ancora sconosciuta, ma pronta ad uscire fuori se solo ne avesse l’occasione. La quiete in un dolce clima temperato di piena primavera, una porta finestra spalancata, i movimenti felpati di una madre (la mia) intenta a scorrere su e giù un ferro da stiro su una tavola di panno bianco tenuta su da un incastro “a cavalletto” di tubi, un piccolo televisore tenuto a volume basso giusto per lasciarsi accompagnare da suo ronzio e poi… poi io che passo davanti a quel televisore e, invece di catapultarmi fuori attraverso la porta finestra, inaspettatamente decido di soffermarmi su quel ronzio. In quella piccola “scatola” un tizio (onestamente non ricordo chi) stava raccontando, con l’ausilio di alcune foto e immagini, di una grande squadra di calcio, forse la più grande che il nostro Paese abbia mai avuto. Poi era partita una narrazione ben conosciuta, ovvero quella di un Grande Torino diventato, grazie alle sue vittorie, un segnale di rinascita e di riscatto per una nazione appena uscita dalla tragedia di una ventennale dittatura e dalla catastrofe economico/sociale della Seconda Guerra Mondiale.

La Lampada di Aladino, la Fata Turchina, Mago Merlino erano tutti lì, davanti ai miei occhi: percepivo come qualcosa di magico mi stesse per accadere, mi trovavo esattamente su quel ponte che permette il passaggio dal mondo visibile a quello invisibile di cui scrive Paulo Coelho. In seguito credo di aver afferrato per un attimo (ma ci sto ancora lavorando) la sensazione di avere avuto il dito di Dio appoggiato sulla mia spalla. Ma ero talmente silenzioso e introverso da non riuscire a parlare con nessuno di quel che mi stava capitando. Circondato da juventini, milanisti e interisti ero bloccato nel trovare il modo di svelare di essermi finalmente anch’io innamorato di una maglia. Il Toro era stato sì Grande, ma ora eravamo così piccoli…tu cosa vuoi, Carmelo? Messo seduto su un grande tavolo da mio nonno, e sentirlo snocciolare tutta la formazione degli “Invincibili” (Bacigalupo, Ballarin, Maroso… ecc, ecc, ed ancora ecc…) per rispondere a tutte le mie paure e ai miei quesiti. Nel caldo afoso di Catania, al sentire nominare Ossola (a chiudere quella formidabile formazione) di slancio mi buttai su mio nonno e goffamente lo abbracciai, sorprendendo la sua naturale ritrosia di un uomo dell’inizio del secolo scorso poco incline ad abbracci e baci.

Poco male: l’orgoglio e la felicità colta nei suoi occhi mentre i nomi dei giocatori del Grande Torino sfioravano le sue labbra, avevano finalmente dato il via libera a un amore intenso e inatteso. Da quel momento fu il colbacco di Gustavo Giagnoni, lo sguardo inquieto di Gigi Radice, lo Scudetto del 76, i tre gol in cinque minuti del derby del marzo 1983, la semifinale UEFA vinta con il Real Madrid nell’aprile 1992, la sedia alzata in aria da Emiliano Mondonico, la traversa “interna” di Gianluca Sordo nella finale di Amsterdam, il fallimento dell’accoppiata Cimminelli/Romero nel 2005, la rinascita targata Urbano Cairo, la vittoria storica (anche per il calcio italiano) del San Mames.

E tutto questo grazie ad un racconto andato in onda su Rai1 e ad una formazione declinata a memoria da parte di mio nonno. Ma senza il Grande Torino non sarebbero esistiti né il racconto, né la formazione da declinare con  orgoglio. “Ti amo non per chi sei ma per chi sono io quando sono con te”, scrive Gabriel Garcia Marquez, e penso non ci sia pensiero migliore per descrivere l’attimo in cui il tifoso ferma il tempo insieme alla sua squadra, in quei misteriosi 90 minuti che vanno a comporre una partita da più di un secolo foriera di parole scritte, parlate e immaginate.

Cosa vuoi, Carmelo? Il “Grande Torino” è stata la magnifica anomalia della storia del Toro e io oggi so come questa abbia aiutato in uno dei momenti più difficili della storia della nostra nazione, anche i nonni e i bisnonni di quanti capiteranno a leggere queste mie righe. Ho provato tante volte a immaginare quanto devastante debba essere stato il dolore e lo stordimento non solo dei tifosi del Toro, ma di tutti gli italiani, di fronte alle immagini dei rottami di ciò che era rimasto di una promessa fatta da Valentino Mazzola ad un giocatore portoghese giunto alla fine della sua carriera: congedarsi dal calcio giocando una partita contro la squadra più forte del mondo… li abbiamo persi perché Mazzola era un galantuomo: quanti di noi possono, in tutta onestà, dire di esserlo?

“Bagicalupo, Ballarin, Maroso…”, Capitano, o mio Capitano, quando il prossimo 4 maggio tornerai a nominarli ancora una volta uno per uno, fallo con la voce più tonante a tua disposizione. Che si possano sentire quei nomi da Aosta a Lampedusa, perché di tutti sono e di tutti saranno per sempre. “Per quelli che sono rimasti, per quelli che sono partiti, e per tutti quelli che si sono persi”, è la dedica posta da Kennet Branagh nei titoli di coda del suo “Belfast”. “Abbiamo giocato per voi”, è il canto del vento proveniente da Superga. E’ la vita, e che sia sempre meravigliosa.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

tutte le notizie di