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Parliamo di tremendismo granata

ToroSofia / Torna l'appuntamento con la rubrica di Stefano Budicin: "A detta di Arpino è tremendista il club che sia capace di costituire una sfida ardua e tenace per chiunque"

Stefano Budicin

Chi frequenta il Toro da qualche anno avrà sicuramente sentito parlare del cosiddetto tremendismo granata. Magari in seguito a un commento espresso da un telecronista durante una partita molto accesa, con un club piemontese  furioso e reattivo, oppure al termine di un match non proprio esaltante dove il termine sia stato evocato come scongiuro. Ad ogni modo, l’appellativo è qualcosa di radicato in maniera talmente profonda nell’immaginario torinese da meritare lo sforzo di un approfondimento. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di tremendismo granata?

Quand'è che si cominciò a parlare di tremendismo granata? A partire dal 1972. Il termine fu coniato da Giovanni Arpino, celebre poeta e giornalista, che lo utilizzò in un'introduzione pubblicata quell'anno e dedicata al gioco del Toro. A detta di Arpino è tremendista il club che sia capace di costituire una sfida ardua e tenace per chiunque:

Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango: tutto questo significa “tremendismo” .

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Non importa quante coppe o scudetti si riesce a vincere, è sufficiente dimostrare di essere forti, furiosi, tenaci, aggressivi. Arrendersi non fa parte del vocabolario tremendista, osare sì.

Pensando ai tremendisti il primo che mi viene da citare è Gustavo Giagnoni, che allenò la squadra per tre campionati con la sua imponente statura da cosacco: colbacco in testa, aria seria ma mai arcigna e una posa da sergente di ferro fatta di una lega impossibile da piegare, ossidare o arrugginire.

Nel dicembre 1973, in occasione del derby granata-bianconeri, Giagnoni, subissato dalle continue provocazioni di Franco Causio, pensò bene di assestargli un cazzotto sullo zigomo. Il gesto, di cui l'allenatore mostrò segni sinceri di pentimento, venne accolto dai tifosi granata con un'ovazione. "Questo è il Toro" diventerà il motto di lì a breve di un certo modo di intendere il calcio granata. Più che un invito alla violenza gratuita, lo si potrebbe prendere come un monito volto a far capire agli avversari che il Toro non è una squadra con la quale convenga scherzare, perché ci sono delle conseguenze quando si pesta la coda a un toro rampante e orgoglioso delle proprie corna.

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Non si può però circoscrivere la malìa del tremendismo unicamente alla figura di Giagnoni, pur se divina e meritevole di encomi senza fine. Perché il Toro è una di quelle rare, rarissime squadre che possano vantare, nella propria storia, una schiera di figure che definire leggendarie sarebbe un banale sfoggio di eufemismi.

Infatti, un altro degno rappresentante del tremendismo non poteva essere che lui: Paolo Pulici, attaccante che la storia ricorda come Puliciclone. Forte di 172 gol di cui 134 in campionato, è stato il portavoce di quella forma di tremendismo ipnotico e fatale contro cui tutti gli avversari soccombevano. Quando giocava in coppia con Ciccio Graziani, non ce n’era più per nessuno. Non per niente i due attaccanti vennero ribattezzati i gemelli del gol. 

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Tremendista era uno come Luigi Radice, che vinse con il Torino il primo scudetto dopo i fatti infausti di Superga, stagione 1975-76. Tremendista fu Emiliano Mondonico, allenatore che portò il Toro a vincere la Coppa Italia nel 1993 e ne incarnò valori, visione e carattere fino alla fine. Un condottiero abile come pochi, Mondonico fece capire alle élìte calcistiche cosa significasse calzare gli alari del cuore granata e traghettare la squadra là dove niente sarebbe stato capace di incrinarla.

Luigi Meroni, se la morte non avesse deciso di scortare il suo talento altrove, avrebbe sicuramente portato il concetto di tremendismo granata a livelli ancora più alti. Ed è inutile citare gli Invincibili, che anticiparono il tremendismo di oltre vent’anni e ancora oggi ammantano la storia granata di un’aura leggendaria.

Ha ragione da vendere Luciano Castellini quando afferma che lavorare per il club piemontese era come arruolarsi:

Come entravi nel Toro dovevi sposare la loro filosofia. Ti accettavano se eri un combattente. Quelli che non avevano gli attributi venivano emarginati e andavano via subito.

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Ho a cuore di ricordare come il termine tremendismo, pur indicando in generale la ferocia esplosiva e catartica della squadra granata in momenti chiave della sua esistenza, evochi anche un significato più profondo e, se vogliamo, commovente: un lampo, un fuoco, un desiderio di riscatto, una febbre di rivalsa. Un sentimento di partecipazione emotiva così forte, sicuro e penetrante da contagiare tutti coloro che se ne lasciavano avvolgere stimolandoli a reagire, sempre e comunque, non importa quanto ostiche fossero le circostanze.

Ed è in forza di questa ardente definizione che mi sento di voler fare un appunto ai nostri giocatori attuali. Bisogna recuperare il tremendismo che ci ha resi famosi e temuti in tutto il mondo. Mediocrità è un vocabolo che dobbiamo disimparare a pronunciare. Perché noi siamo tori rampanti. Noi siamo invincibili, siamo inarrestabili. Nasciamo dalle ceneri di una città in frantumi e ne abbiamo difeso l’integrità nei momenti più bui; abbiamo assistito a disfatte di ogni genere e siamo sempre stati capaci di rinascere e reinventarci. Adesso è ora di tornare a essere tremendi.

Laureato in Lingue Straniere, scrivo dall’età di undici anni. Adoro viaggiare e ricercare l’eccellenza nelle cose di tutti i giorni. Capricorno ascendente Toro, calmo e paziente e orientato all’ottimismo, scrivo nel segno di una curiosità che non conosce confini.

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