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Gravina e la rivoluzione culturale del calcio

Gravina e la rivoluzione culturale del calcio

Torna Loquor, l'appuntamento con la rubrica di Carmelo Pennisi: "Gli stessi presidenti che hanno reso povero il convento (i club) e ricchi i frati (giocatori e procuratori), ora dovrebbero, secondo il lume geniale di Gravina, sistemare tutto"

Carmelo Pennisi

“Non ci sono argentini

                                                                                     alle Malvinas”.

Osvaldo Soriano

 

Sembrerà quasi banale affermarlo, ma la giustizia la si può intravedere solo passando attraverso l’esperienza dell’ingiustizia, che è un percorso doloroso e a tratti intollerante di fronte alle nostre ansie. L’ingiustizia è facile individuarla in vicende elementari, quelle classiche del due più due fa quattro, più difficile è individuarla nelle realtà complesse, dove tutto induce a vivere avendo cura di creare quante più sfumature possibili al fine di far desistere la pubblica opinione dall’ incunearsi in semplici operazioni aritmetiche. Ma se non si addiziona e non si sottrae, il rischio è quello di rimanere nell’inquietudine delle domande senza risposta, e allora ecco farsi largo tante di quelle ipotesi, facilmente riconvertibili in indizi di complotti. Se si pensa all’attuale situazione del calcio, vi sono diverse domande che continuano a ronzare per la testa, tanti “perché” a cui si fatica a trovare risposta. Pensare male non è l’unica opzione, ma la storia, anche quella grande e di alto livello, insegna come non tutto quel che si vede alla luce del sole nella contemporaneità è poi così vero. Bisogna sempre aspettare che i posteri disvelino, giungendo a chiedersi come chi li ha preceduti possano essere stati così sprovveduti (magari anche complici?). Gabriele Gravina, attuale lider maximo di Via Allegri (sede della FGCI), ha dichiarato a Radio1 la necessità di una riforma strutturale del calcio italiano, prefigurando addirittura una rivoluzione culturale. Intervento, questo di Gravina, avvenuto a mercato calciatori aperto, dove il racconto è stato quello simile a quando negli scambi economici arcaici più che il denaro circolava il sistema delle cambiali.

Quest’ultime un tempo promesse di intenzioni di pagamento, a volte disattese, ma volano di un’economia  bisognosa di crescere. Ma un’economia in crescita non è solo il dato numerico di un PIL o il valore di investimenti fatti, bisognerebbe stare attenti, molto attenti, a quale sia il reale punto di caduta di un sogno divenuto realtà. Cercando di semplificare: dove esattamente si vuole andare a parare? E’ molto facile far uscire dal cilindro del “verbo” la locuzione “rivoluzione culturale”, soprattutto quando si omette dallo specificare cosa si intenda. Dando per scontato (anche se non lo è per tutti) come un aumento del PIL non corrisponda sempre ad un significativo miglioramento di vita per tutte le classi sociali, ci si dovrebbe soffermare sul fiume di parole profuse a cicli regolari dalle stanze dei bottoni del calcio. Lasciano un po’ interdetti le cosiddette “parole forti” (stante ad alcuni giudizi giornalistici) usate da Gravina, che ha ipotizzato, ove mai il Consiglio Federale del calcio non riuscisse a partorire nessuna idea su “un progetto di riforma non più procrastinabile”, di affidare ai club il compito di aggiustare le cose nel calcio italiano. Ma sì, lasciamo fare ai presidenti gli interessi del movimento calcistico, loro sì che sanno cosa fare, basta guardare i loro bilanci e il loro riesumare il sistema del pagherò per continuare a movimentare i giocatori.

Gli stessi presidenti che hanno reso povero il convento (i club) e ricchi i frati (giocatori e procuratori), ora dovrebbero, secondo il lume geniale di Gravina, sistemare tutto ciò che non va nel calcio. Ma la classe dirigente italiana va così, persa tra soldi depositati nella cuccia di un cane e la voglia di tornare a dare il nome di un parco ad un figlio di Mussolini, tutto questo mentre ci si ritira dall’Afghanistan chiedendosi su tutto il fronte mediatico cosa ci si sia andati a fare per vent’anni. Non abbiamo, noi comuni mortali, risposte a nessun quesito da questa corte dei miracoli, chiamata ad occupare tutti i posti nevralgici del Paese. Eppure basterebbe chiedere a Javier Tebas, il vulcanico e decisionista presidente della Liga spagnola, per capire in sintesi chiara come stanno le cose a proposito degli stati club: ”Sono pericolosi per l’ecosistema calcistico quanto la SuperLeague. In Francia perdite covid +300 milioni, entrate tv -40% e aumenti di stipendio +500 milioni? Insostenibili”. Ma l’idea di stati club (Paris Saint Germain e Manchester City) ad imperversare in Europa a dispetto dei “mammasantissima” che controllano il calcio e il potere politico continentale, dovrebbe apparire peregrina anche alle menti più ingenue. Il sospetto come dietro questo “lasciare fare” ci sia un disegno politico/economico/culturale è altissimo, e pazienza se ora ci daranno per complottisti. I grandi club partiti con largo anticipo sul progetto “SuperLeague” (è stato subito chiaro come non fossero pronti), non volevano veramente dare immediatamente vita al loro progetto, ma piuttosto porre in evidenza all’opinione pubblica europea il format “SuperLeague”, seguito dal grido d’allarme di un calcio talmente indebitato da essere sull’orlo del fallimento. Quest’ultima considerazione ha dato il via allo storytelling dello stato di necessità, essenziale a convincere anche le menti più recalcitranti a cominciare ad accettare l’idea di un campionato europeo per club. Negli ultimi venticinque anni sono state diverse le scelte messe sul pianale del “vivere o morire”, l’euro è stato l’inizio di tutte i crocevia drammatici ed inderogabili.

In fondo è facile, punti una pistola alla tempia, lo comunichi mezzo stampa in modo martellante all’opinione pubblica, e a meno che non ci si trovi psicologicamente nel mondo onirico de “Il Cacciatore” di Michael Cimino, e non si sia disperati come i personaggi interpretati da Robert De Niro e Christopher Walken, la voglia di giocare al tavolo della vita attraverso una “Roulette Russa” non viene presa in considerazione da nessuno come un’opzione possibile. Alla fine degli anni 90 non credo qualcuno potesse sul serio pensare come l’esistenza, in Europa, potesse cambiare così tanto. Anche perché non sarebbe stato mentalmente accettabile, e nella vita il consenso è tutto, o quasi. La sensazione è quella di aver dato compito a dei fondi sovrani arabi di indicarci la via di un calcio ricco, sfavillante, elitario e senza nessuna regola, assegnando a loro la genesi di un nuovo inizio.   In tale contesto appare anacronistica la recente intervista in cui Silvio Berlusconi, in nome del “non possiamo non dirci cristiani”, auspica un’Europa dove a “chi è rimasto indietro, a chi è più debole, debbono essere offerte nuove opportunità”, in quanto dalle nostre parti da tempo si è avviato un processo di divaricazione di possibilità tra chi ha sempre di meno e chi ha sempre di più. La “Superleague” ha la caratteristica di un format piombato dal cielo dell’America a “Stelle e Strisce”, dove tutto è competizione, vittoria ed esclusione dello sconfitto. La competizione che fortifica e rende opulenti, è frutto di un mercato desideroso di autoregolamentarsi, lasciando alla politica solo lo spazio della raccolta delle tasse e dell’assegnazioni di prebende dal sapore propagandistico. Volendo spostare ancora più confini verso il concetto sport-mercato in salsa nordamericana, l’ultimo prodotto riservato ai consumatori di calcio è il “fan token”, la moneta virtuale nata per illudere il consumatore di essere rimasto ancora un tifoso. Un modo nuovo per vendergli tutto, convincendolo di stare partecipando attivamente alla vita della sua squadra del cuore ed elevandolo al grado di finto investitore.

I primi ad utilizzare il “fan token” sono stati proprio quelli del Psg, coinvolgendo i tifosi in volume di scambi da un miliardo di dollari, serviti a pagare anche parte dell’ingaggio di Leo Messi. Quando si ha una faccia come il sedere impossibile da fermare in un fotogramma, perché in perenne movimento verso nuovi giochi di prestigio. Sarà questo il cambiamento culturale invocato da Gabriele Gravina? Si sta correndo il rischio, per usare le parole di Friedrich Holderlin, di “un ritorno al caos originario”, un momento in cui gli dei erano assenti e tutto era affidato al diritto del bisogno soddisfatto. La mitopoiesi del calcio è sempre alla ricerca della luce tra i difensori posizionati in formazione compatta; quella luce, non facile da scoprire e da interpretare, è il segreto di un segreto di un gioco onesto, se messo in scena rispettando i canoni della sua storia. Manipolando le coscienze attraverso gli storytelling inventati a getto continuo dal marketing, qualcuno ha fatto dimenticare gli oratori, i dopolavori, le università e i licei, le sinagoghe, tutti cuori pulsanti della mitopoiesi di una sfera di cuoio, di plastica, di pezza talmente infinita da non potersi racchiudere in un’intera enciclopedia. Nell’Anno Domini 2021, al redento cacciatore di replicanti Harrison Ford di “Blade Runner”, non rimarrebbe che cercare in Sud America l’ultimo “Bastione d’Orione” del calcio, nella speranza di trovare tracce di resistenza e non far finire i tifosi nell’oblio delle “lacrime nella pioggia”. Tutto questo, mentre Gabriele Gravina sta per affidare ai mercanti la ristrutturazione del Tempio. C’è ancora tempo per rovesciare, come Gesù, i tavoli dei cambia valute? Lo scopriremo, e, a prescindere, forse finalmente impareremo qualcosa sull’ingiustizia.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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