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Quando Franz Beckenbauer incontrò Benedetto XVI

Quando Franz Beckenbauer incontrò Benedetto XVI - immagine 1
Torna "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi, con un nuovo appuntamento

“Sospesi tra il reale

                                                                                               e il fantastico”

Osvaldo Soriano

 

Rispetto al cinismo della vita quotidiana c’è qualcosa di ridondante nel calcio che richiama sia ad un valore geometrico (lo spazio dove si svolge), sia ad un valore algebrico (una somma perpetua di emozioni), rammentandoci ogni volta come esso illuda e disilluda senza però mai deludere. Il pensiero matematico incontra il mistero e si lascia plasmare, concedendogli una precedenza difficile da riscontrare in tutti gli altri settori della vita. Questo gioco impone direzioni insondabili e inappellabili, come quando Albert Camus, adolescente, finisce per giocare in porta, iniziando così il suo percorso personale di solitudine, su invito della nonna convinta come l’unico paio di scarpe possedute dal futuro premio Nobel della Letteratura si sarebbero consumate meno sulla linea immobile di una porta, un posto ancora più solitario di un “monte di lancio” di un “diamante” del baseball, perché da una porta di calcio i tiri si aspettano con angoscia e follia rispetto ad un “monte di lancio” attivo nel lanciar palline. C’è solitudine e solitudine, e quella del portiere, considerata la sua forzata attesa degli eventi, particolarmente strugge: sei lì a rimpallare errori e lampi di talento impossibili da immaginare se non dopo averli visti.

Poi capita di sbagliare e il mondo crolla all’improvviso, considerato come un pallone finito dietro di te potrebbe corrispondere ad un appuntamento mancato con la storia. In una rete possono attorcigliarsi pesci ma anche sogni infranti. Sarai perdonato perché l’apocalisse è avvenuta mentre indossavi una maglia, e questa garantisce “novene” d’amore tra le più empatiche e sincere. Franz Beckenbauer la maglia del Bayern di Monaco l’ha indossata 433 volte in diciassette anni, con un senso di appartenenza e di orgoglio all’heimat bavarese forgiato da un cattolicesimo impossibile da rimuovere da questo “land” unico a non essere sedotto o domato dalla follia criminale nazista (solo il 18%, rispetto ad una media nazionale del 37%, votò il partito di Adolf Hitler nelle ultime libere elezioni prima del presa del potere nazista), con il “Circolo di Kreisau” e gli universitari della “Rosa Bianca” indomabili nell’opporsi a chi stava trascinando la storia della Germania nella vergogna. “Nonostante l’orrore – scrive Sophie Scholl, leader della “Rosa Bianca”, poco prima di salire sulla ghigliottina- avverto qualcosa di grande e inspiegabile nella mia gioia profonda per tutto ciò che è bello: la coscienza del suo creatore”.

Il bello come frutto di una coscienza di sé che agisce e fermenta nel “circondario” è l’essenza di un cattolicesimo granitico a cui Franz Beckenbauer ha sempre guardato lasciandosi ispirare nel suo modo di stare su un campo di calcio: “sono stato educato come cristiano e cattolico e i miei pensieri sono sempre rivolti verso l’alto”. Ed era davvero un modo “alto” quello di vedere il gioco da parte del calciatore bavarese, testa in direzione dell’orizzonte e piedi da centrocampista nonostante sia considerato il più forte difensore di tutti i tempi. In campo era fuoco e “grano salis”, un difensore con 60 gol all’attivo durante la sua permanenza al Bayern di Monaco, una cosa davvero mai vista nella storia del calcio. Ma, per sua stessa ammissione, ogni trofeo vinto viene posto in secondo piano quando nel 2005 incontra in Vaticano Joseph Ratzinger, da qualche mese assurto al  “soglio di San Pietro”. “Avevo appena compiuto sessant’anni – racconta Beckenbauer – e per quell’occasione mi era stato concesso di realizzare il desiderio di incontrare Benedetto XVI. Uno dei momenti più commoventi della mia vita che non dimenticherò mai. Un Papa tedesco, e per giunta bavarese, un conterraneo”.

Un uomo di calcio ragiona unicamente per appartenenza, fosse alla maglia o a un territorio, e afferra in un istante l’importanza dell’identità. Lo sport più seguito al mondo fiorisce e si afferma oltre un secolo fa in aggregazioni sociali omogenee per cultura e trasversali per status, quindi non deve sorprendere se il 265esimo Papa della Chiesa Cattolica sia stato in vita uno dei quasi 175.000 soci del prestigioso club di Monaco di Baviera. L’incontro del 2005 fu molto breve ma intenso, con il fuoriclasse tedesco sorpreso di trovare un Pontefice molto loquace sul prendere l’iniziativa nel voler parlare di calcio. “Non mi aspettavo che s’interessasse e s’intendesse di calcio”, raccontò in seguito, probabilmente vittima della vulgata da leggenda mistificatrice di un Ratzinger cerbero a guardia dell’ortodossia dottrinale ed intento in complicate dispute teologali e filosofiche. In uno stretto lasso di tempo Benedetto XVI effettua  dei dribbling irresistibili al difensore per eccellenza e lo costringe a riconsiderare alcune cose della sua vita, riportandolo anche a frequentare la chiesa, luogo geometrico della fede (“ho letto tutti i suoi discorsi di una sua visita in Germania, In questi continuava a ripetere “andate in chiesa e testimoniate”. Sono parole che ho preso a cuore”).

Sono anni controversi per il “Kaiser” la prima decade del nuovo millennio, coinvolto in molte querelle della Fifa gestione Sepp Blatter e nelle vicende che consegnarono alla Germania l’organizzazione dei mondiali del 2006. Forse non si saprà mai se il giocatore più elegante della storia del calcio fu colpito da Ratzinger proprio perché immerso in un subbuglio della sua vita. Le parole semplici e profonde di cui era capace il religioso bavarese potrebbero aver aperto spiragli di luce in un momento di particolare crisi, rinfrancando l’idea di una possibilità di riscatto. Sottolineò di essersi legato in modo viscerale ad una foto scattata con Benedetto XVI, tanto da portarsela dietro in cima alla valigia di ogni viaggio. Il successore di Giovanni Paolo II, quella mattina del 2005, deve avergli smosso qualche anfratto bloccato da tempo nella coscienza, ridestata grazie ad una rapida chiacchierata sul potere salvifico sul gioco, vera “anticipazione del Paradiso”. Perdersi e ritrovarsi appartengono alla fede e al calcio con l’analoga forza del mistero di un amore invisibile e insondabile alla ragione umana. Beckenbauer, ad un certo punto, doveva essersi ritrovato in una selva oscura inestricabile nella sua attività di dirigente calcistico, accusato da ogni parte di aver fatto di tutto per soddisfare interessi non troppo chiari. Sono accuse da cui in seguito ne uscirà quasi indenne, ma il formalismo giuridico è questione assai diversa dalla coscienza.

Calciare un pallone fino a 38 anni ti lascia nella condizione di fanciullo a cui non viene chiesta nessuna decisione o mediazione, ma poi arriva la vita vera, quella dove ti aspetta l’onnipresente “Capitan Uncino” o magari il “gatto e la Volpe” di collodiana memoria, e tutto si complica in ampi spazi di zona grigia. “A volte la vita segue vie misteriose”, ebbe a dire Kaiser Franz a proposito del suo incontro con il suo illustre conterraneo. Gente come Joseph Ratzinger ha il potere e il talento di riportarti nell’innocenza, quando, bambino, ti affacciavi dal balcone di un modesto appartamento e vedevi la sede e il campo del “Monaco 1860”. Come sono affascinanti le trame quando i sogni si impongono.

Probabilmente il Papa tedesco non deve essere rimasto insensibile all’aurea da guerriero acheo di Beckenbauer, e molti ricordi da tifoso gli devono essere tornati in un baleno ad affollargli la mente di fronte alla summa del calcio teutonico, che dal “miracolo di Berna” in poi non ha cessato di essere protagonista sui prati verdi di ogni angolo di mondo. “Kaiser Franz” se ne è andato in una fredda giornata di gennaio ed ora tutto è consegnato a chi ha l’onere di giudicare, a noi rimane il ricordo di momenti eterni come solo il calcio sa regalare. A Joseph Ratzinger saranno bastati pochi attimi per vedere negli occhi del più grande calciatore tedesco della storia il film di una vita che, a torto o a ragione, non sarà mai dimenticata. Non c’è errore o magagna con il potere di cancellare la forza magica del calcio, esso è parte di una storia infinita ancora tutta da scrivere e raccontare. Siamo tutti alla ricerca di una ragione e di una speranza, che poi queste possano arrivare alla fine di un cross proveniente dalla fascia destra direi non sia una eresia. Anzi, direi sia una cosa abbastanza ragionevole.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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