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Vorrei

Lettere alla Redazione / Riceviamo e pubblichiamo l'articolo gentilmente inviatoci da Carmelo Pennisi

Redazione Toro News

La redazione di Toro News torna ad aprire le colonne della prima e più grande testata on-line dedicata al Torino FC ai suoi lettori, i quali da sempre meritano di avere spazio. Gli indirizzi di riferimento a cui mandare le vostre lettere sono le stesse: redazione@toronews.net o gianluca.sartori@toronews.net. Gli articoli su qualsiasi argomento legato al mondo Toro: i più meritevoli e significativi saranno settimanalmente pubblicati sul nostro sito. Oggi tocca a Carmelo Pennisi, torinista e noto sceneggiatore cinematografico (tra i suoi lavori: Karol-Un uomo diventato Papa, La lettera e l’indimenticabile, per i tifosi granata, Ora e per sempre).

Vorrei parlare del Toro, vorrei parlare di Urbano Cairo, vorrei parlare della crisi che al momento la squadra sta attraversando, vorrei parlarne anche se non mi ritengo un tecnico della materia, vorrei parlarne certo che i fratelli granata perdoneranno un qualche mio scivolone o una qualche mia ingenuità. Ma prima vorrei fare una premessa; forse retorica, forse banale: io amo il Toro.

Avevo solo cinque anni quando questo amore sbocciò, e da allora quelle maglie granata che corrono dietro un pallone su un manto erboso non hanno smesso di dare un senso a molti di quei sentimenti che il mio cuore non smette di generare. Mio nonno, tifoso interista, mi fece comprendere come il Toro fosse un patrimonio della nazione, e quanto fosse giusto che lui ricordasse a memoria tutta la formazione del Grande Torino.”Nessuno della mia generazione- disse una volta, fiero, mio nonno- potrebbe mai dimenticarsela. Il Grande Torino, Fausto Coppi e Tazio Nuvolari avevano acceso una luce fra tutta quell’oscurità che la guerra aveva lasciato”.

Spesso si dimentica che gli echi che giungono dal passato, sono quei rumori di fondo che pazientemente pongono le basi e le ragioni del nostro attuale stare insieme come nazione. Uno di questi rumori di fondo sono stati quei grandi giocatori, che nella seconda metà degli anni 40 diedero spettacolo in tutti i campi d’Italia e d’Europa, sottolineando ai contemporanei che il nostro Paese esisteva ancora. Ricordando ai nostri avi il dovere di ricostruire con orgoglio su quel poco che era rimasto. La tragica fine degli “Invincibili”, poi, consegnò le loro gesta al ricordo del mondo intero. Perché il mondo conosce la storia della nostra squadra, mostrando in tante occasioni di onorarla e rispettarla.

Caro Urbano Cairo, di questo stiamo parlando, e davvero non può non capirlo. Fu mamma Maria, raccontano le cronache, a convincerla nel 2005 a rimettere insieme ciò che era rimasto della squadra granata e della sua storia. Fu mamma Maria a sedere con lei, sin da subito, nel consiglio d’amministrazione del Toro. Era mamma Maria, dicono le cronache più maliziose, ad essere la vera tifosa della nostra squadra. Non so davvero dire se lei comprò la squadra per amore filiale, per convenienza, o per tutte due le cose insieme; tale dilemma rimarrà per sempre custodito nello scrigno della sua coscienza. Comunque, per qualsiasi motivo lei abbia 'salvato' il Toro, noi tifosi le ne siamo grati. Sinceramente.

Detto questo, ora vorrei parlarle di un “però”, vorrei tentare di raccontare a lei, persona di talento imprenditoriale indiscusso e persona che si è “fatta da sola”(solo per questo dovrebbe essere additato come un esempio), perché c’è qualcosa che proprio non si può approvare nello “spettacolo” da alcuni anni messo in scena dalla squadra che ha l’onore e l’onere di presiedere.

Quando si prende in carico una storia come il Torino, si hanno dei compiti precisi da ottemperare. Il primo compito di un buon presidente del Toro, è quello di creare le condizioni per un derby dove la compagine granata scenda in campo regalando la sensazione di dare davvero fastidio alla Juventus. Ciò non è un particolare di poco conto. Spesso si diventa tifosi del Toro, perché questa squadra ha nel suo codice genetico una certa serie di valori, che non sono migliori o peggiori di altri: sono semplicemente i suoi. Tra questi valori c’è la magnifica utopia, per usare una metafora di Emiliano Mondonico, di essere indiani in un mondo dominato da cowboys. Perché alla filosofia bianconera del “vincere è l’unica cosa che conta”, l’esistenzialismo granata oppone il battersi nella difficoltà come elemento costitutivo della coscienza del tifo torinista. Non pretendiamo troppo, in fondo, quando noi tifosi desideriamo una Juve che torni a temerci quando scende in campo per il derby.

"Non starò qui a descriverle, dottor Cairo, quanti e quali valori discendano da questo primo compito da ottemperare. Lei non è un uomo banale, e sicuramente non ha bisogno che io glieli elenchi. Ma un concetto deve essere chiaro: se il Toro non riesce a battersi nel derby, non è più il Toro. Lascio ai suoi criteri di valutazione, che sono sicuramente più informati e strutturati dei miei, sul perché da anni la nostra squadra non riesce più a mettere paura ai bianconeri. Noi tifosi viviamo nel mondo, e del mondo conosciamo le difficoltà e i cambiamenti. Sappiamo, quindi, della difficile crisi economica in cui il nostro Paese si sta dibattento, e sappiamo come il calcio stia inesorabilmente cambiando. Sappiamo come gestire una società di calcio sia diventato tremendamente più difficile, e sappiamo come sia ancora più difficile, per un club dal fatturato non importante, trattenere giocatori che vogliono traghettare verso altri lidi. Non è vero che i giocatori passano ma la squadra resta, non è vero che “morto” un Darmian se ne fa un altro. Sono certo che Darmian farà sempre parte del quadro dei nostri ricordi. E ne sono certo, perché sono tifoso del Toro. Ma pur in questo scenario di crisi economica e cambiamenti, nessuno può chiedere ai tifosi granata di accettare un futuro da comprimari. Nessuno può chiederci di non protestare, anche in modo vigoroso, di fronte alla progressiva perdita di identità della nostra squadra.

"Mario Giordano, giornalista di cui apprezzo umanità e professionalità, ha scritto su queste colonne di tifosi granata dimentichi delle rovine da cui lei, dottor Cairo, ci ha tirati fuori. Stavolta Giordano sbaglia (capita anche ai migliori), perché nessuno qui dimentica niente. E nessuno si diverte a mettere in discussione la presidenza di Urbano Cairo. Ma Giordano non può liquidare, e glielo dico con vera stima e affetto, l’inquietudine dei tifosi del toro, giustificando l’operato di Urbano Cairo con il classico adagio che “chiunque fa, sbaglia”. Perché se è vero che chiunque fa sbaglia, è anche vero che dagli sbagli si dovrebbero trarre delle naturali conseguenze. Altrimenti tutto finisce per diventare relativo. Ed io sono certo che Mario Giordano, perché spesso lo leggo e lo ascolto, non è un relativista.

Personalmente non mi arrogo il diritto di chiedere a Cairo di farsi da parte (non vivo sulla luna.

So che Unicredit, principale creditore della famiglia Sensi, ha messo degli anni per trovare un James Pallotta disposto a rilevare la Roma), ma sicuramente posso permettermi di chiedere che al Torino calcio sia, finalmente, restituito l’onore sportivo.

Diventando adulto ho scoperto che mio nonno aveva ragione: il Torino è un patrimonio della nazione. Lo dico non perché sia un suo tifoso, ma perché è oggettivamente vero. E quando si gestisce un patrimonio della nazione si hanno delle responsabilità particolari, e si deve sempre ricordare di esserne proprietari per conto terzi. Caro Urbano Cairo, per quanto lo abbia sempre desiderato, non ho mai avuto occasione di vedere una partita nella Curva Maratona. Il giorno in cui questo accadrà, perché sono sicuro accadrà, probabilmente non vedrò nemmeno un attimo della partita, ma mi soffermerò a vedere i gesti e gli sguardi dei miei fratelli. E quel giorno, che sto sognando da una vita, in ognuno di loro vedrò quella forza da sempre sottovalutata.

Recuperi quella forza, dottor Cairo, la recuperi per farsi aiutare a restituire l’onore sportivo al Toro e per aiutarlo a riportarlo dove è giusto che stia. Il giorno dell’ultimo Torino-Udinese mi trovavo a Parigi per lavoro. Ero seduto ad un tavolino di un bar, armato di cuffietta e computer, a guardarmi la partita in streaming. Ad un certo punto una lacrima mi è scesa visibilmente sul viso, e qualche avventore si è subito preoccupato del mio stato. Ma proprio non sono riuscito a spiegare che quella lacrima era il frutto dell’emozione di essere stato seduto in groppa a Belotti, e che insieme a lui avevo percorso quei settanta metri verso il 2 a 0 sull’Udinese. Quei settanta metri di campo Belotti li aveva percorsi in precario equilibrio, dando sempre la sensazione di essere sul punto di cadere, ma con una tenacia e una fede incredibile. Sì, il nostro centravanti mi aveva trascinato (ed io avevo trascinato lui) in quella folle corsa, e per un attimo aveva avuto il potere di farmi dimenticare tutti i miei affanni e le mie preoccupazioni. Per un attimo mi era parso di correre insieme a lui a festeggiare sotto la Curva Maratona.

Ci sono cose che non hanno prezzo e in cui non si fanno calcoli. Cose per cui, davanti alla fine della nostra vita, saremo lieti di averla vissuta. L’unica cosa che mi sento di chiedere ad Urbano Cairo è di ricordarsi dello stupore. Perché se dopo le esigenze di bilancio, se dopo le giuste ambizioni, se dopo il giusto cinismo, ci si ricorda anche della bellezza dello stupore, allora tutto è possibile.

Anche di riportare il Toro dove è giusto che stia.

Carmelo Pennisi