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Il Calcio e’ morto ma lui non lo sa

di Anthony Weatherill

 

Un sentimento mi pervade in questi ennesimi giorni difficili che sta attraversando il calcio. Questo sentimento è la tristezza. Hanno, ancora una volta, ridotto il più...

Redazione Toro News

di Anthony Weatherill

Un sentimento mi pervade in questi ennesimi giorni difficili che sta attraversando il calcio. Questo sentimento è la tristezza. Hanno, ancora una volta, ridotto il più bel gioco del mondo alla stessa stregua di una farsa, di una pantomima priva di qualsiasi significato. Non ce l’ho, lo voglio dire subito, con una persona dello stampo dello sciagurato Paoloni, portiere che un tempo doveva avere delle belle speranze. Ce l’ho con tutti quelli che avrebbero dovuto controllare la funzionalità del gioco, per amore del gioco stesso. Paoloni, e tutti i suoi colleghi dediti al trucco, hanno infatti numerose scusanti, per giustificare i cattivi comportamenti tenuti. Paoloni è giovane, ha solo 28 anni, e sin da ragazzo, lasciato il comodo e protettivo alveo del settore giovanile della Roma, si è abituato a girare le squadre della famigerata Lega Pro, un tempo più nota come Lega della serie C.

Cosa è la lega Pro, ex serie C? E’ un territorio, nato un tempo per esaltare le numerose realtà comunali presenti nelle lande italiche, spesso contornato di sfumature grigie e da società dedite ormai più a libri contabili portati in tribunale, che al gioco del calcio. Le società aprono e chiudono i battenti(non si sa più quante volte società come il Catanzaro(ma giusto per fare un esempio, non me ne vogliano i sostenitori giallorossi), siano state dichiarate fallite per debiti e retrocesse di categoria. C’è almeno uno scopo nobile per questo? Queste società vengono tenute in vita, anche con grandi sacrifici, per permettere ai Paoloni di turno di giocare e crescere per essere un giorno notati da qualche squadra di serie A? No, non c’è niente di tutto questo. Ormai bisogna ammetterlo, le squadre di Lega Pro vengono tenute in vita solo per interessi economici di qualcuno. Come questi furbetti di turno( a capo c’era un odontoiatra, pensate un po’), che manipolavano la giovane mente di Paoloni, facendola sempre più scendere nelle viscere di un abisso infernale. Così il portierone romano un giorno si ritrova solo, spesso con lo stipendio pagato in ritardo, o proprio non pagato affatto. E, cosa peggiore, con società di serie A che chiamano, anche per fare il secondo portiere, degli atleti dal nome rumeno o sudamericano. Giusto per creare, attraverso nomi esotici, del glamour persino dalla panchina.

E intanto Paoloni si convince, ogni giorno che passa, che le belle speranze di un tempo erano, appunto, solo delle belle speranze. Si sa, quando uccidi la speranza, spesso a dichiararne il decesso si presenta, sornione, il cinismo. E allora Paoloni si convince che deve sfruttare il momento della sua vita, perché la vita di un calciatore è un momento. Se a nessuno importa il destino delle squadre di Lega Pro, delle squadre di serie B(che infatti possono fallire tranquillamente), perché, alla fine, non orientarne il triste destino e guadagnarci un po’ sopra? Il discorso che un giorno si è fatto largo nella mente di Paoloni, non fa una piega, Non può fare una piega nella mente di un ragazzo di ventotto anni, visto che non fa una piega nemmeno nella mente dei navigati dirigenti della Federazione Italiana Giuoco Calcio(FIGC), che da anni fanno dell’omissione di controllo il loro credo assoluto. “Lo Stato ora deve aiutarci”, ha urlato di dolore(finto) l’onnipresente presidente della FIGC, Giancarlo Abete, colui che non ha sentito il bisogno di rimettere in discussione(non dico dimettersi) il suo mandato nemmeno dopo la disonorevole disfatta dei mondiali sudafricani. Lo stato ora dovrebbe aiutare colui che avrebbe dovuto controllare il gioco, per amore del gioco. In un Paese normale, come la Francia per esempio, lo Stato prima avrebbe azzerato i vertici di una federazione incapace, e poi semmai sarebbe venuta in aiuto della regolarità del gioco.

Il nostro ministro degli interni Maroni ha subito annunciato, invece, la creazione di una task force della polizia per controllare il fenomeno delle partite truccate. Non riusciranno a fare nulla, ovviamente, le nostre pur volenterose e rispettabili forze di polizia. Perché questo è il tipico problema che non si risolve annunciando eventuali repressioni. E’ provato, da numerosi e autorevoli studi, che nemmeno la pena di morte serve come deterrente contro i crimini. Questo perché il crimine nasce da ragioni che, date alcune situazioni culturali e sociali, diventano più forti di qualsiasi deterrente. Si sa che se uno nasce in una famiglia mafiosa, difficilmente sarà la paura del carcere ad allontanarlo dalla cultura mafiosa e dalle sue attività illegali. Quando uno decide di delinquere, spesso ritiene di essere o il più furbo o che non ha alternative al commettere il crimine. E quindi si fa strada, nella mente di molti, che arricchirsi illecitamente non è poi un peccato così disdicevole. Nella vita tutti si muovono per interessi. Dobbiamo ammettere che, di fronte allo spettacolo che la nostra società offre, è difficile provare a spiegare i molti torti che questo modo di ragionare reca con sé. C’è poi da considerare che, a differenza di altri crimini, quelli commessi truccando gare nello sport portano con sé le stimmate dell’irrimediabilità. Una volta truccato un risultato, una volta falsato il gioco, nessuna assicurazione o sanzione potrà restituire l’emozione e l’attimo che solo lo sport sa regalare. La grandezza dello sport si basa su quell’attimo. Se una finale di un campionato del mondo di calcio viene truccata, nessuna sanzione a posteriore potrà sanare la ferita di quel’emozione alterata per denaro. Fa tenerezza, quindi, la genuinità dei tifosi dell’Atalanta, che hanno marciato per difendere l’onorabilità della squadra per cui tifano. In difesa di un qualcosa che pensano, giustamente, di essersi guadagnati sabato dopo sabato, lungo tutto il corso dell’anno. I tifosi sanno amare il gioco, sanno amare la loro squadra. Non hanno interessi in questo, se non in quel magico cerchio che comprende ricordi ed emozioni tramandate da generazioni che li hanno preceduti in quell’amore. Sarebbe stato bello se Marco Paoloni o Vincenzo Sommese, fossero stati salvati dalle virtù taumaturgiche contenute in quel cerchio magico. Anche loro, un giorno, avranno creduto, quando erano solo dei ragazzi ebri di gioia dal correre dietro un pallone, al cerchio magico della loro squadra del cuore.

La Carta del Tifoso che avevo sognato, era quella cosa che avrebbe dovuto ricordare l’esistenza del cerchio magico. Nel cerchio magico sono conservati tutti i valori dello sport. Inutile prendersi in giro, questo non sarà l’ultimo scandalo scommesse. Prima o poi, altri penseranno di potersi arricchire facilmente attraverso l’alterazione del risultato di una partita. Ecco perché, pur approvando il volenteroso intervento del ministro Maroni, non è l’aspetto repressivo che aiuterà a difendere il gioco del calcio. Il mondo del calcio, tutto il mondo del calcio, deve tornare a riunirsi per decidere cosa ne vogliamo fare di questo sport. Le squadre devono tornare ad essere il centro catalizzatore di un’identità, non il contenitore di un semplice spettacolo. I giovani devono essere educati ad essere incantati da queste identità espresse dai colori delle squadre, che sono il segno distintivo di una storia, in un progressivo viaggio dentro un cuore. L’incanto ci proteggerà da tutti gli scossoni negativi futuri, anche da coloro che pensano al calcio come un veicolo di soddisfazione delle proprie ambizioni. E’ vero, spesso nella vita tutto è politica, e tutto è ambizione, e questo non deve provocarci dei retorici rammarichi. Ma un gioco, rimane sempre un gioco. L’incanto del gioco ci porterà sempre cose buone e, forse, alla fine salverà la parte migliore di noi. Ma per far sì che ciò accada, occorre che quel magico momento in cui la palla solca il confine del sette della porta, sia vero. Sia eterno. Come tutte le nostre emozioni.

Anthony Weatherill