"Il 4 Novembre 1918 il Capo di Stato maggiore Armando Diaz trasmise alla nazione il bollettino della vittoria: «la guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 [ ] è vinta». L'Italia uscì dal conflitto con le ossa rotte e con spaventosi buchi nel bilancio mentre le piazze si animarono di ex combattenti e scioperanti, strangolati dalla crisi economica. La tensione volò alle stelle, tra occupazioni di fabbriche e conseguenti repressioni, tra chi gridava alla Vittoria Mutilata e chi ne approfittava per ingrossare le file dell'eversione. In mezzo a tutto questo, il calcio. Percepito sempre più come sfogo e festa popolare, il campionato riprese nella stagione 1919-20 e il Toro si presentò, come sempre, ai nastri di partenza.
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Vej Turin / Quando il Toro era più forte della guerra
"Erano però già passati quattro anni da quando la squadra aveva sfiorato il titolo 1915, e il tempo si dimostrò il vero avversario di quel Toro. Bachmann aveva superato i trent'anni così come Carlo Capra. Francisco Mosso, ventisettenne, cambiò ruolo: complice un grave infortunio al ginocchio dal 1919 si spostò in porta. A ricostruire la società Giovanni Secondi, già fondatore e presidente dal 1908 al 1911. Ricordando quei giorni Angiolo Biancotti scrisse: «il Torino si trovò in crisi di riassestamento e passò ore pochissimo liete, tanto che si sussurrava di scioglimento [ ] ma l'attaccamento ai colori sociali dei vecchi dirigenti e di tutti i soci salvarono la compagine sociale». Ripartendo dal suo gruppo storico, vero cuore pulsante, il Toro riuscì a trovare la forza necessaria per proseguire.
"Nonostante lo scioglimento di molti club, dovuto spesso alla morte dei giocatori in guerra (accadde al Piemonte, altra squadra di Torino), al campionato 1919-20 aderirono 66 squadre. Un numero mostruoso, che costrinse la Federazione a eliminatorie d'accesso e a gironi regionali affollati da matricole. Una simile organizzazione è sintomatica per due motivi: in primo luogo gli italiani iniziavano a considerare il calcio come una panacea contro le ansie sociali e le paure economiche. In secondo luogo, la sufficienza nella gestione di un così alto numero di adesioni da parte della FIGC rispecchia il caos in cui il Paese stava sprofondando. Vittorio Pozzo, dopo aver condotto il Toro fino al girone semifinale per due stagioni consecutive, venne incaricato dalla Federazione di riorganizzare il Campionato.
"Il progetto Pozzo disegnò una Prima Categoria a 24 squadre divise in due giorni, con promozioni e retrocessioni, eliminando completamente le fasi regionali. In questo modo solo le grandi squadre, quelle storiche e quelle più titolate, avrebbero goduto del palcoscenico principale, relegando le minori a campionati secondari. La mattina del 24 luglio 1921, poche ore prima della finalissima di campionato tra Pro Vercelli e Pisa, discutendo il progetto Pozzo la Federazione si divise. Le grandi squadre, difendendo il piano dell'ex allenatore granata, uscirono dalla FIGC fondando la Confederazione Calcistica Italiana: tra loro il Torino.
"Per la prima volta nella Storia, il calcio assurse a emblema del Paese: lo specchio perfetto di un'Italia divisa tra fazioni politiche, scossa dalle violenze dello squadrismo fascista, con le fabbriche occupate e un clima di instabilità ogni giorno più angosciante. L'impotenza delle istituzioni (in ogni campo) era palese. Che il mondo del calcio vivesse i traumi dell'epoca esattamente come la società civile era evidente già da tempo, almeno dall'8 gennaio 1921 (se non prima), quando il centrocampista della Pro Vercelli Aldo Milano venne colpito a morte durante una spedizione anti socialista nelle campagne del vercellese.
"Anni tempestosi, insomma, che il Toro attraversò tenendo ben fermo il timone sulla rotta. Stagione dopo stagione, accanto ai giocatori del gruppo storico furono inseriti giovani promettenti: Bachmann cedette il testimone a Janni, mentre i fratelli Martin presero il posto dei Mosso. Furono in pochi a comprenderlo ma il Torino, silenziosamente, stava costruendo una squadra in grado di eclissare la generazione dei fondatori; un undici competitivo ad alti livelli e in grado di raggiungere risultati mai visti prima. Un restyling compiuto nel segno della continuità e dell'operosità, prolifico e senza clamori: il Toro concluse puntualmente i suoi campionati nella colonna di sinistra, concedendosi vittorie importanti contro vere e proprie corazzate. I calciatori esordienti in questi anni divennero il legame tra i primi eroi e la squadra spumeggiante del trio Libonatti-Balonceri-Rossetti, trasmettendo la filosofia tremendista con cui il Torino fu fondato. I frutti di questa trasformazione silenziosa non tardarono. Se il campionato da secessionisti del CCI vide un Toro spento, l'anno successivo iniziò il riscatto: la squadra granata si segnalò con un secondo posto nel girone, il miglior attacco e la miglior difesa di tutto il campionato. Era nell'aria: l'ora del Torino stava scoccando.
"L'epoca delle due federazioni durò solo un anno: grazie al compromesso Colombo nell'estate del 1922 furono sanate le fratture e le big tornarono nella FIGC. Anche questo ritorno all'ordine fu sintomatico di quanto accadde nel Paese: riferendosi al 1922 Gianni Brera scrisse «in quell'anno vinsero: a primavera la Pro Vercelli e la Novese, a fine ottobre Benito Mussolini». L'Italia si ritrovò in camicia nera: i giorni dell'incertezza lasciarono posto a quelli della dittatura.
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