di Ivana Crocifisso
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Toro, il miglior quartetto difensivo è questo
di Ivana Crocifisso
Nessun gol subito, all'Olimpico, cosa che non succedeva dalla gara con il Grosseto. E come un mese e mezzo fa, la linea difensiva sabato era composta dal quartetto Rivalta-Di Cesare-Ogbonna-Zavagno....
Nessun gol subito, all'Olimpico, cosa che non succedeva dalla gara con il Grosseto. E come un mese e mezzo fa, la linea difensiva sabato era composta dal quartetto Rivalta-Di Cesare-Ogbonna-Zavagno. Sarà un caso, o forse no, ma sembra ormai evidente che al di là dei gol subiti, sia questo il quartetto che offre più garanzie a Franco Lerda ma soprattutto al Toro.
Una linea difensiva che dà maggiori sicurezze, che funziona, e che per metà è quella che all'inizio dell'anno era nelle idee del tecnico. La metà già prevista è la coppia centrale. Senza i guai fisici di Di Cesare e le numerose assenze dell'ex vicentino, Pratali, con le sue prestazione a volte sorprendenti ma spesso altalenanti avrebbe visto difficilmente il campo. Spesso, però, anche con Di Cesare 'guarito' e a disposizione, Pratali è stato il favorito nel ballottaggio con il compagno. Quanto detto non vuole assolutamente gettare la croce su Pratali e attribuire a lui i guai difensivi del Toro, ma solo sottolineare che sarebbe meglio continuare ad insistere sul quartetto che ha affrontato la Triestina e, infortuni permettendo, continuare a proporlo poiché solo giocando assieme certi meccanismi divengono automatici. Oltre al fatto che al momento i risultati danno loro ragione.
Ma i meriti vanno anche ai due terzini, la metà 'non prevista'. Alla faccia del rientro dopo un infortunio, alla faccia dell'attesa di giocare che snerva (e qui si parla di Zavagno). La miglior risposta data sul campo, in questa stagione, è proprio quella dei due terzini. Uno, Rivalta, che è entrato nei cuori dei tifosi e che sembra lontanissimo da quella gara in casa con il Crotone, quando sembrava essere solo la terza o quarta alternativa. L'altro, Zavagno che a sorpresa ha saputo conquistare anche quello di Franco Lerda.
(foto M. Dreosti)
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