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Toro, Pozzo e quel rifiuto per i colori sbagliati

Vej Turin / La confessione di ''Grignolin''. I granata e i giorni che sconvolsero il mondo...

Redazione Toro News

"L'estate 1914 portò la guerra. La Grande Guerra, quella che avrebbe spazzato via interi Stati, monarchie plurisecolari, costringendo i geografi a ridisegnarne i confini, relegando in soffitta le vecchie carte. Sedici milioni di morti coprirono con i loro corpi i fronti europei e mondiali: un'intera generazione sparita, cancellata, annichilita. L'Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915 e la Federazione decise per la sospensione dei campionati. Inevitabile, dato che le squadre si trovarono nella totale impossibilità di proseguire il campionato, con i giocatori in partenza per il fronte. Perché la Prima Guerra Mondiale, a differenza della Seconda, fu combattuta anche dai calciatori: fino al 1919 i campi di calcio rimasero disabitati, dimenticati o, a volte, riconvertiti per scopi bellici. È questo il caso del campo Stradale di Stupinigi dove il Toro era di casa da qualche anno: ai giocatori si sostituirono i soldati, alleati francesi, che utilizzarono il campo come base e autorimessa. 

"Il Torino seppe della Guerra a bordo del piroscafo “Duca di Genova”, salpato il 22 luglio (sei giorni prima dello scoppio del conflitto) da Genova verso il Brasile, per la prima tournée oltreoceano dei granata. I 16 giocatori, il tecnico Vittorio Pozzo e l'avvocato Minoli (presidente regionale della Federazione) non si preoccuparono troppo, convinti che si sarebbe trattato di un conflitto di breve durata. Una convinzione comune in tutta Europa durante l'estate del 1914, una speranza che presto si rivelò vana: se ne accorse lo stesso gruppo granata, prima bloccato nel Nuovo Mondo perché impossibilitato al rientro e poi, una volta trovata una nave, bloccati da un incrociatore inglese a Gibilterra. Raccontò Pozzo: «all'arrivo a Genova, uno degli amici che ci aspettavano sul molo agitava, nella mano, una quantità di fogli verdi e gialli. Erano i richiami per mobilitazione, od esercitazione. Ce n'era per tutti, ci volevano da tutte le parti: 3° alpini, 4° bersaglieri, 5° genio minatori, 92° fanteria».Nel Paese, la campagna per l'intervento si fece di giorno in giorno sempre più pressante, stuzzicando i sentimenti antiaustriaci degli italiani, un fiume carsico di rancori sepolto nelle menti almeno dalla fine del Risorgimento. Lo sapeva bene Pozzo: da ragazzo vestendo la maglia giallo nera dell'F.C. Torinese avvertì l'impopolarità di questi colori (erano infatti gli stessi dell'imperatore d'Austria) e da adulto, organizzando amichevoli contro squadre asburgiche – sia per il Toro che per la Nazionale – incorse nelle ire del questore che, preoccupato per l'ordine pubblico, ricorse a decine di agenti nascosti dentro e intorno allo stadio.Nonostante le bombe esplodessero già negli Stati vicini la Federazione decise, data la neutralità dichiarata e la confusione politica che regnava nel Paese, di dare lo stesso il via al campionato 1914-15. La situazione si dimostrò precaria fin dall'inizio. La mobilitazione era iniziata nonostante la non belligeranza e i calciatori, giorno dopo giorno, lasciavano i campi per entrare nelle caserme. Più ci si avvicinava al maggio “radioso” (così ribattezzato dagli interventisti) e più i disagi aumentarono: ogni domenica giocatori e tecnici dovevano chiedere permessi su permessi per uscire dalle caserme, cercando poi di raggiungere gli stadi il più velocemente possibile. Il 9 maggio 1915, a Milano, il Toro attese per due ore un paio di avversari interisti in arrivo dal Veneto: solamente al loro arrivo la partita poté cominciare. Davanti a un pubblico (anche lui) quasi completamente vestito di grigio verde, i granata persero 2 a 1: una sconfitta destinata – con il pareggio della domenica successiva contro il Milan – a fermare la corsa al primo posto del Toro. Poi, dopo il 16 maggio, il blocco: impossibilità totale di ottenere licenze. La guerra era arrivata.Il Toro venne spazzato via. Tutti al fronte, giocatori, tecnici e soci. Pozzo finì tra gli alpini e anni dopo raccontò le vicende dei suoi ragazzi sotto le armi, storie come quella dell'oriundo Eugenio Mosso (detto “Grignolin” dalla sua passione per il rosso) che, vedendo i compagni partire, scrisse una lettera anonima autodenunciandosi, avvisando i carabinieri che a casa sua, in via Asti, «c'erano diversi fratelli nati in Argentina, figli di genitori italiani, quindi italiani, quindi renitenti o imboscati. Quando giunsero i carabinieri, andò ad aprire e disse in piemontese: "Souma si, siamo qui, so tutto, sono io che ho scritto"». Goggio (tre anni al Toro e una presenza in azzurro) partito bersagliere nel tentativo di scansare i debiti e le difficoltà di una vita di azzardi trovò subito la morte, il 28 luglio del 1915.Non solo granata, a morire furono in molti: il calcio italiano perdette – tra gli altri – miti leggendari come il capitano della Nazionale Virgilio Fossati, Felice Milano ala degli azzurri e della Pro Vercelli, Enrico Canfari (fondatore della Juventus) e Luigi Ferraris mediano del Genoa (cui sarà intitolato lo stadio del capoluogo ligure). Nonostante nelle retrovie qualcuno, approfittando delle licenze, ancora giocasse era evidente a tutti, già prima del 4 novembre 1918, che il calcio in Italia sarebbe ripartito dall'anno zero. Così fu. Le stagioni postbelliche videro l'affermazione di una nuova generazione di calciatori e una trasformazione decisiva nei club: il professionismo.