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Tra cosmopoliti ed emigranti

 
«Il Torino è un dialetto […], un...

Redazione Toro News

  «Il Torino è un dialetto […], un gergo» sosteneva Giovanni Arpino, una squadra popolare e popolaresca, radicata nella terra natia di cui è rappresentante e bandiera.  In questi anni di “globalismi calcistici” il Torino continua a preservare un'identità consolidata, che trae il proprio senso – oltreché dalla sua stessa Storia – dai suoi luoghi e dai suoi simboli. Il calcio delle origini era però qualcosa di molto diverso e il Torino, come molti altri club, prese vita  grazie al cosmopolitismo, vero e proprio emblema borghese a cavallo tra '800 e '900.  Gli affari, il lavoro e i commerci (quando non il gusto dell'avventura e dell'esotico) spostavano uomini e soldi lungo tutto il continente e la città di Torino, in pieno sviluppo industriale, non venne certo ignorata.  Il cosmopolitismo è stato così un fattore determinante per la nascita del calcio in Italia: a Torino, per esempio, Edoardo Bosio (discendente dalla famiglia svizzera che fondò, nel 1845, l'omonima birreria) con alcuni colleghi inglesi della Thomas & Adams fondò nel 1887 il Football & Cricket Club.  Per quanto riguarda il Toro non possono essere dimenticati i molti svizzeri che presero parte alla fondazione per poi vestire la maglia granata sul campo (una delle prime formazioni recita: Biano, Bollinger, Mützell, Rodgers, Ferrari-Orsi, De Fernex, Jaquet, Kempher, Michel, Streule e Debernardi). Non solo banchieri, nobili o imprenditori: questi pionieri del “calcio eroico” sono i prodotti di un'epoca ironica ed elegante. Ricorderà Vittorio Pozzo: «Alto e magro, Fritz Bollinger era l'immagine dell'eleganza e della cortesia nello stesso tempo. Si era fatto attillare la sua maglia granata, ed annodava ogni volta intorno ai fianchi una sciarpa colorata da cui pendevano sul lato sinistro un paio di fiocchi […]. In una occasione, caricato in pieno petto da un avversario, cadde all'indietro, sul sedere. Non recriminò, si alzò, guardò per terra e disse, col suo accento particolare: “Credevo di aver fatto un buco”».  Più che cosmopolita: il Torino manifestò infatti nei suoi primi anni una particolare tendenza esterofila. Anche questo non deve stupire: le squadre più importanti in quegli anni erano inglesi, francesi, svizzere e mitteleuropee, all'avanguardia nel gioco e nelle impostazioni tattiche; affrontarle voleva dire prima di tutto apprendere novità, stare  al passo con le innovazioni, farsi conoscere e, in una parola, sprovincializzarsi. Così accanto alle prime partecipazioni ai campionati nazionali (i cui calendari lasciavano ancora molto spazio per amichevoli e tornei) il Toro disputò partite contro Lyon, Slavia Praga,  Winterthur, Victoria Berlino, Lugano, Gèneve, Barcellona, Red Star e Atlétique di Parigi (per citarne alcune); nel 1936 si conteranno 79 partite contro squadre straniere, di cui 35 vinte, 34 perse  e 10 pareggiate.  Proprio all'interno di questo quadro si può meglio comprendere l'importanza della tournée che il Toro intraprese oltreoceano nel 1914, diventando la prima squadra italiana ad attraversare l'Atlantico. Il viaggio, ricordato per i successi (7 vittorie su 7 partite disputate), assunse fin da subito i toni dell'avventura: non appena il Toro giunse in alto mare scoppiò la Prima Guerra Mondiale, che costrinse la squadra a prolungare indefinitamente il soggiorno sudamericano, organizzando partite per poter sopravvivere e muovendosi in treno tra San Paolo, Montevideo e Buenos Aires (dove batté la Nazionale Argentina per 2 a 0).  Ad attenderli, a ogni partita, tifosi italiani. Loro, infatti, furono l'altra faccia dei viaggi tra '800 e '900: gli emigranti. A migliaia, dal Piemonte e dalle altre regioni, in quegli anni fuggivano la povertà cercando nuove terre e una nuova vita oltreoceano: nella sola Argentina – censimento del 1895 – ben 62.975 proprietari agricoli erano italiani. Una pagina dolorosa della nostra Storia che vide protagoniste famiglie divise dall'oceano, paesi spopolati, speranze e frustrazioni.  Un romanzo popolare in cui anche il Toro si riconobbe, in cui emerse quella vena popolaresca, di appartenenza alla terra e alle tradizioni che sarà tanto cara ai suoi tifosi.  La squadra granata, infatti, subì alcune defezioni a causa dell'emigrazione: «Traggia» racconta Pozzo «emigrò in Sud America, e non ne sapemmo più nulla» , Mützell, terzino sinistro granata nel campionato 1907, stabilitosi anche lui nel Nuovo Mondo andò a salutare la squadra e gli ex compagni a San Paolo. Tra gli emigranti incontrati nel 1914 si conta anche un cognato canavesano di Vittorio Pozzo, che ospitò la squadra nella sua “fazenda” per qualche giorno.  Alla fine il Toro riuscì a tornare a casa solo grazie all'interessamento dell'ambasciatore italiano, che imbarcò giocatori e tecnici sul piroscafo “Duca degli Abruzzi”, destinato principalmente, ironia della sorte, al trasporto degli emigranti.      Roberto Voigt