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4/05/1949: quelli che non dimenticano

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L'appuntamento della rubrica di Carmelo Pennisi è tutto dedicato agli Invincibili. Da non perdere

Dedicato alle mie nipoti

(Elena, Federica, Beatrice)

 

Non c’è modo di sapere chi siamo finché non ci troviamo di fronte al dolore, quello vero, quello stordente, quello inspiegabile, quello nel quale non riusciamo a vedere nemmeno una traccia di resurrezione. Prima delle 17.05 del 4 maggio 1949, c’è una fase che inizia l’8 settembre 1943, quando il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio annuncia attraverso un messaggio radiofonico quello che alla storia sarebbe passato come un armistizio, ma che in realtà era una resa incondizionata dell’Italia alle Forze Alleate, la fine di un’Era durata quasi vent’anni, con una successiva coda annessa così controversa da tenerci ciclicamente inchiodati ancora oggi in dibattiti senza fine. Lo storico ed editorialista del Corriere Della Sera Ernesto Galli della Loggia, riprendendo la visione del giurista e scrittore Salvatore Satta e dello storico Renzo De Felice, nel 1996 intitola uno dei suoi più importanti lavori “La Morte della Patria”, indicando in quel giorno di settembre la fine di un sentimento nazionale condiviso in vigore sin dal Risorgimento. Mentre nel nostro Paese l’asse Germania/fascisti rifugiatisi nella Repubblica di Salò continuava a combattere contro le forze alleate e i partigiani, il tempo di tirare le prime conclusioni sul “dopo” era cominciato.

Tutto, o quasi, era stato distrutto, non c’era una parvenza di mercato se non quello “nero”(un litro d’olio in questo contesto veniva venduto a 420 lire al litro rispetto ad un prezzo ufficiale di 30 lire), e di lì  poco saremmo stati ridotti completamente in ginocchio e immersi nella fame più spaventosa. Sono i giorni in cui la dignità scompare e si vedono madri svendere gioielli e capi di corredo pur di portarsi a casa almeno un pezzo di pane nero. Al posto dell’Impero promesso da Benito Mussolini, ora c’era la solitudine e il ludibrio internazionale verso uno Stato con la macchia di aver accettato persino le Leggi Razziali nella sua idea di futuro e di dominio. Nell’agosto del 1946 Alcide De Gasperi, in qualità di Presidente del Consiglio, si reca alla Conferenza di Pace di Parigi e si prende su di sé tutte le colpe di un popolo ancora stordito. De Gasperi usa parole coraggiose e sfida ogni imbarazzo, consegnando alla storia l’esempio di cosa sia il senso del dovere quando si rappresenta una Nazione: “prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me… ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano”.

Non si può capire cosa sia stato il Grande Torino se non si parte da questa premessa, e diventa inutile salire a Superga ogni 4 maggio se non si è disponibili a tramandare a tutti quelli che non ci sono stati, o addirittura non sanno, quale sia stato il messaggio consegnato ad un intero popolo da questa formidabile squadra. Certo, ce ne sono state altre di grandi squadre, e ci sono stati altri incidenti mortali nella storia del calcio, basti ricordare quello del Manchester United del 1958 e della Chapecoense nel 2016, raccontati, in un intreccio emotivo con ciò accaduto a Superga nel 1949, nel bel libro di Paolo Quaregna “Granata Rosso e Verde”. Ma la tragedia degli “Invincibili” si lega indissolubilmente ad una intera generazione di italiani che, come i tedeschi, vivevano in quel momento non solo uno stato di prostrazione materiale, ma anche morale. Il senso del dovere di De Gasperi a Parigi aveva bisogno di qualcosa di ancora più tangibile nella realtà quotidiana di ogni giorno dei nostri avi, proprio perché, come  detto dal politico democristiano davanti al mondo, l’Italia aveva ancora una sua coscienza. I partigiani avevano fatto la loro parte e le migliori menti dell’antifascismo italiano erano in piena fase della “Costituente”, nel tentativo disperato di ridare una dignità a chi improvvisamente aveva capito di essere stato parte di un male assoluto: però serviva una scintilla, un segno di Provvidenza nel firmamento italico.

Chi parla male del calcio, chi lo snobba, chi pensa sia solo un gioco, chi sta tentando di ridurlo ad una forma di spettacolo, chi lo utilizza come mezzo facile di arricchimento, dovrebbe essere messo in una macchina del tempo e riportato al momento in cui Ferruccio Novo, Presidente di quel miracolo schiantatosi contro un costone della collina di Superga, decide di trascurare persino gli affari di famiglia per dedicarsi alla costruzione della scintilla di cui il nostro Paese aveva bisogno. Tutto, esattamente come nel Risorgimento, ripartiva ancora una volta da Torino.  Da bambino, quando in sorte mi toccò di tenere per il Toro, non c’era anziano o adulto, in quel del meridione d’Italia in cui vivevo, che non si commuovesse o si riempisse d’orgoglio al solo nominare il Grande Torino. Loro, che lo avevano visto e ne avevano dovuto sopportare il dolore della perdita, mi passavano una mano sulla testa come a volermi  dire “bravo, hai fatto una bella scelta ad essere uno che tiene per il Toro. Hai scelto di essere dalla parte di quelli che non dimenticano. Verrà il giorno in cui noi non ci saremo più, in cui tutti dimenticheranno da cosa ci siamo dovuti rialzare, in cui saremo solo un oggetto di disputa intellettuale o di lotta ideologica tra storici. Ma voi del Toro, salendo a Superga, avrete l’occasione di raccontare perché loro furono così importanti. Tienilo bene in mente ragazzo: Tornare in piedi è scontato solo per chi non è mai caduto”.

Occorre sempre ripartire dalla gente quando si parla di calcio, occorre riscoprire il bisogno delle persone comuni di ritrovarsi in qualcosa, dell’ansia di andare oltre il semplice consumare la vita, altrimenti tutto finisce presto per diventare una monotona coazione a ripetersi di date e celebrazioni(compleanno, onomastico, natale, festa della liberazione, primo maggio, ecc…). Sono 74 anni che la gente  va al “Filadelfia” nella speranza di trovare traccia di qualcosa  che non può più tornare, ma che inspiegabilmente continua ad essere presente. Ho visto il “Fila” ferito, ridotto a dei monconi sporgenti, pieno di sterpaglie e del ricordo del campo di gioco che li aveva visti disegnare perimetri di sogni. Ho visto il “Fila” come è adesso, e ho continuato a cercarli nonostante niente ricordi ciò che era. E ogni volta capiterò da quelle parti, lo so, continuerò a cercarli: non posso e non voglio stancarmi di farlo. Salirò ancora una volta a “Superga”, e mi chiederò, come mi sono ogni volta chiesto, in quale anfratto della sua anima Vittorio Pozzo abbia trovato il coraggio e la forza di errare tra lo scempio, chiamato per l’improbo compito di riconoscere i corpi di quelli che erano stati i suoi ragazzi. Un Maresciallo dei carabinieri, riconoscendo il leggendario Commissario Tecnico di due vittorie mondiali, si mise sugli attenti e gli fece, pieno di costernazione e ammirazione, il saluto militare sussurrandogli: “nessuno meglio di lei”. “Usi obbedir tacendo e tacendo morir”, è il motto dei carabinieri, che da sempre e in silenzio accompagnano le tragedie italiane per testimoniare che lo Stato c’è e ci sarà, anche laddove nessuno ritiene ci sia.

Pozzo fieramente eretto, come De Gasperi quel giorno di Parigi, nell’apogeo del Golgota della sua esistenza compì fino in fondo il suo dovere. L’Italia sbanda paurosamente ancora una volta, e in ogni angolo del Paese tutti piangono o rimangono attoniti. Una anziana signora una volta mi disse: “sembrava che non ci saremmo ripresi mai più. Non era possibile che Dio si fosse preso anche loro”. Con gli “Invincibili” probabilmente gli “Azzurri” avrebbero conquistato il terzo mondiale consecutivo, e forse era troppo da chiedere “alla personale cortesia” del destino. C’è un momento,e lo vorrei dire soprattutto a coloro che si ostinano scelleratamente a fare in pieno 2023 ancora il saluto romano, in cui qualcosa ci spinge verso il fondo più profondo. Giunge il giorno in cui abbiamo il dovere almeno di provare a capire e a chiedere perdono, senza condizioni o inutili dettagli a sostegno. Il “Grande Torino” era stata una splendida carezza, un incredibile segno che questo Paese non solo ce la poteva fare, ma aveva il diritto di tentare. L’ho capito in un giorno di particolare calura catanese. Mio nonno, di fede interista, aveva appena finito di versare una bustina di idrolitina in una bottiglia di vetro piena d’acqua, al solito soffermandosi un attimo incantato dalle miriadi di bollicine prodotte. Poi mi aveva preso e messo seduto sul grande tavolo del salone della sua casa e, con gli occhi illuminati di orgoglio, cominciò: “Bacigalupo, Ballarin, Maroso…”. Era l’inizio di un grande racconto, e a distanza di cinquant’anni sto ancora qui a crederci.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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