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Lecco, stadio di proprietà e dintorni

Lecco, stadio di proprietà e dintorni - immagine 1
Torna un nuovo appuntamento di "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Non esiste un pasto gratis”

Milton Friedman

Il caso Lecco è l’ennesima dimostrazione di come il calcio italiano si sia perduto nella selva oscura in cui ormai l’Italia da tempo ha smarrito la retta la via. Hai voglia di aggrapparti alle assai fortuite tre finali raggiunte nelle ultime coppe europee, l’attivare la gran cassa solerte dei poveri di spirito di logica(tipica di coloro che di Gioann Brera fu Carlo non hanno in comune nemmeno la penna) gonfiando il petto come il “miles gloriosus” di plautiana memoria, laddove la farsa fa giungere a dire: “il fatto è quello, e non si può fare che non sia fatto”. Siamo ad una frutta nemmeno consumata e in via di deterioramento, a causa della malsana convinzione di essere a malapena dopo l’antipasto. Conquistare la Serie B sul campo e non poterla giocare a causa di uno stadio da dopolavoro ricreativo, riporta, però, improvvisamente alla realtà che i fatti sono composti da più fatti, da una visione d’insieme senza la quale saremmo al punto in cui oggi l’Italia è giunta: alla confusione sprovvista finanche di qualche idea confusa, in balia di un bar evaporato dal caffè e giunto alla variante alcolica di un Fernet. Partono, quindi, le polemiche retoriche stile “marcia della pace” in cui si riafferma il calcio come un diritto anche dei “poveri”(catalogare la città dei “Promessi Sposi” nel rango dei poveri fa strano, visto come sia stabilmente nella top ten dei capoluoghi di provincia con il reddito più alto pro capite), ormai bistrattati dal grande vecchio seduto sul trono della SIM, acronimo di “Stato Imperialista delle Multinazionali” coniato dalla Brigate Rosse. Il divario tra “ricchi” e “poveri”, nel calcio, è un problema serio, investe il concetto di bene comune tanto caro alla cultura socio/politico/economico dell’Europa, ormai a rischio di modalità “cancel culture” da un mondo in preda ad una vorticosa danza sul ciglio del burrone neo liberista “tutto è mio, quindi me lo gestisco io”.

E non appena si prova a porre qualche obiezione a questa fiera dei sogni del “libertarismo”, ecco giungere l’obiezione fatta cristallizzare in questo tempo sconsiderato: “non faccio male a nessuno, quindi perché devono vietarmi di agire su ciò che è mio”? Essere attori e giudici nello stesso tempo è uno dei problemi ad impedire la lucidità nell’analizzare addirittura le cose a noi più care come il calcio, a buon diritto considerato non solo il nostro sport nazionale, ma autentica icona del nostro stare al mondo. Averlo ridotto ad una sovrastruttura del capitalismo, infilandolo nel tunnel della cultura totalitaria americana o araba che sia, non deve far dimenticare nemmeno per un secondo le gravi responsabilità di chi lo sta gestendo in nome e per conto di una comunità e della sua storia. Sono trascorsi decenni di parole sulla questione “stadi”(a livello di parolaio siamo quasi a livello della costruzione del Ponte di Messina), eppure niente si è fatto per poter rendere operativa la visione di una “casa di proprietà” per i club. Si parla tanto per non concludere niente, epitaffio perfetto da incidere sul sepolcro della nostra bandiera. I presidenti, e perdonerete il volgare, se ne fottono così tanto del bene comune rappresentato da una maglia, da far riconsiderare, anche ad un liberale, la condanna di Jean Jaques Rosseau della proprietà privata, ritenuta dal pensatore francese la massima alienazione del reale stato di natura dell’uomo. Per loro l’argomento stadio potrebbe avere un valore solo se qualcuno(lo Stato) facesse in modo di regalarglielo, come diritto inalienabile della gestione di un bene comune. Altrimenti meglio concentrarsi sul trading giocatori, dove il bene comune va a farsi benedire, visto come il club sia di loro proprietà e ne possono disporre come vogliono. E’ la filosofia non disposta a fermarsi nemmeno di fronte ad un calcio sempre più privo di libido mitologico, sostituito dal nuovo abbonamento in fibra ottica in accompagno ad una tv di ultima generazione, pagabile in comodissime rate.

Ti confino al salotto di casa e ti riempio anche di debiti: un capolavoro. La tragicommedia in scena a Lecco è figlia dello stare perennemente in mezzo al guado della post modernità italica, convinta di potersi sedere al tavolo del business finanziario mantenendo intatta la verginità della costruzione socio/economica fatta,a partire dal dopoguerra, dall’incontro tra il cattolicesimo liberale di Don Sturzo e le “Case del Popolo” del più grande Partito Comunista al di qua del Muro. Gli italiani vorrebbero rimanere in sospensione tra il totalitarismo del neo liberismo e la bambagia rassicurante del metamondo disegnato da Giovanni Guareschi in “Peppone e Don Camillo”. Ma tutto cambia, si evolve in altro e chiede conti impossibili da pagare a chi non è disposto a sedersi al tavolo del futuro con le giuste credenziali. Dalle nostre parti si fa fatica a comprendere come il merito sportivo conquistato sul campo non sia il solo criterio per poter giocare nelle massime leghe professionali del calcio, ci vogliono anche le strutture adeguate, “case” adatte per accogliere un evento dove ormai la tecnologia la fa da padrona(Var, piattaforme tv, ecc…). Inutile andare in Serie B senza aver previsto queste cose, e poi scatenare una cagnara infernale sul merito sportivo disatteso. Ma sulla questione stadio di proprietà la palma per la migliore faccia di bronzo spetta a buon diritto a Urbano Cairo, Aurelio De Laurentiis e Claudio Lotito. Il presidente del Napoli, dopo aver millantato per anni di una costruzione di uno stadio per soli ventimila selezionati tifosi(una sorta del romano “Circolo Aniene”, a lui molto caro, ricostruito per i tifosi azzurri), ora pretende dal comune una concessione di 99 anni per il “Maradona”, per farlo vivere 7 giorni su 7 “e farci anche le Prime Comunioni”.

Non siamo al delirio, siamo quasi alla bestemmia e al non sapere proprio di cosa si stia parlando e si pretenda. E’ la sagra delle parole sparate a caso, convinti di come tanto nessuno farà di conto su quanto detto, ennesima iperbole di uno Stato malandato sin dalla testa della sua classe dirigente. Tutto è occasione di commercio, e non ci si cura nemmeno di nasconderlo per decenza e rispetto del calcio e dell’amore dei suoi tifosi. Claudio Lotito, un altro illustre esponente del “generone” romano, continua la sua commedia intorno allo “Stadio Flaminio”, annunciando a cicli regolari come possa “diventare presto la casa della Lazio”(il concetto di “presto” del presidente biancoceleste è spalmato su innumerevoli anni, come i debiti che continua a pagare all’Agenzia delle Entrate). Questionare attorno ad Urbano Cairo riguardo al suo impegno nel calcio è un po’ come sparare sulla croce rossa. Il metodo è quello berlusconiano, spararla grossa per dare la sensazione all’opinione pubblica di essere sempre in procinto di fare qualcosa di importante e storico(ricordate “il mio Governo sconfiggerà il cancro in tre anni” del recentemente scomparso fondatore di “Forza Italia? Ecco, quello). Il Presidente del Torino è in tutta evidenza, nel calcio, una copia in sedicesimo di Berlusconi, essendo sideralmente lontano, con il Toro, dai fasti del grande Milan di Arrigo Sacchi, Fabio Capello e Carlo Ancellotti. Ma lui, l’Urbano, ci tiene a darti la sensazione che domani sarà migliore di ieri, perché prima o poi l’asso scivolerà dalla sua manica e allora la mano di poker sarà sua. Nel mentre deve trovare estremamente divertente prima annunciare di volersi sedere attorno ad un tavolo con il sindaco di Torino per disegnare un piano di acquisizione dello “Stadio Olimpico” per poi, dopo un paio di settimane, dire queste testuali parole.

“non abbiamo parlato seriamente di acquisto dello stadio. C’è una grande ipoteca e non credo sia possibile”. In parole povere i giornali(compresi i suoi) per due settimane hanno questionato su delle “puttanate”. De Laurentiis, Lotito e Cairo personalmente mi divertono(perdonatemi: a volte ognuno è costretto a ridere come può), e sono l’esatta rappresentazione di come all’estero vedono noi italiani(mi astengo da definire meglio questa cosa, visto come sono piuttosto allergico alle querele. Ma chi vuole capire, capisca). La verità, come suddetto, è che i nostri tre eroi vorrebbero sì lo stadio di proprietà, ma sotto forma di regalia dello Stato. Una parte della nostra classe imprenditoriale ha sempre ragionato con questo metro, e non oso pensare cosa si stia combinando con i fondi del PNRR. Ma questa è un’altra faccenda. L’idea di voler entrare nel mercato del neo liberismo con i metodi del “Gatto e la Volpe” di Carlo Collodi fa capire la tragedia socio/economico/culturale in cui è piombata l’Italia. E’ trasformare in burla Milton Friedman e Friedrich von Hayek, continuare a millantare di voler giocare con le loro regole, e poi tutti a guardarsi stupiti sul peggioramento dei nostri conti pubblici, sulla scarsa produttività del lavoro, sul Paese a impoverimento progressivo. Ma che importa in fondo, si vinca “o scudetto” e si sparino fuochi d’artificio ad oltranza, si venga in Serie B senza porsi il problema di uno stadio regolamentare su cui giocare. Siamo tra il genio comico di Totò e il paradosso amaro di Monicelli. In mezzo ci sono gli italiani, con l’attitudine alla sodomizzazione abbracciata con entusiasmo. Tanto se nessuno ha pensato a costruire degli argini ai fiumi, ci sarà sempre un cambiamento climatico da incolpare e zone “ztl” da instaurare. Avanti, quindi, fino al prossimo colpo di scena. E che la farsa continui.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino. Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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