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Azzurri in ginocchio

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Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Siamo principi della zolla”

Gianni Brera

 

Pare, secondo indiscrezioni, che nel prossimo appuntamento europeo i giocatori italiani si inginocchieranno se lo faranno prima i giocatori della squadra avversaria. Sarà un modo, da parte degli Azzurri, di esprimere una posizione solidale, in questo caso alla squadra belga, sulle vicende del “Black Lives Matter”. E’, praticamente, una posizione presa a “rimorchio” delle decisioni altrui, un capolavoro che avrebbe costretto Dante Alighieri a riscrivere la “Divina Commedia” e ad inventarsi un nuovo girone dell’Inferno dove far soggiornare per l’eternità i “rimorchiati”. Giovanni Brera, forse il più importante giornalista sportivo italiano mai esistito, si sarebbe divertito molto di fronte a questo spettacolo dai contorni parossistici, e gli avrebbe dedicato almeno metà di un articolo discettando sull’origine dell’atellana romana e sull’atavica capacità degli italiani di saper sì aspettare sulla riva di un fiume, ma più per una bella donna che per il cadavere di un eventuale nemico. Vanno capiti i giocatori italiani, da giorni sono sommersi da una tale retorica da “Collezione Harmony” dell’antirazzismo, che qualche decisione dovevano pur prenderla, dopo  le prime tre partite in cui ognuno aveva agito secondo la sua coscienza, la sua voglia la sua apatia (a cui lo stoicismo dava molta importanza). Ma questi non sono i tempi delle coscienze, questi sono i tempi delle decisioni inderogabili di massa, dove persino una eventuale polarizzazione delle idee (almeno in questo caso ci sarebbe una diversità di pensiero) è progressivamente messa sempre più in disparte. La possibilità di avere una diversità di opinioni è stata relegata esclusivamente nel contesto televisivo dei reality show, dove nell’assenza di un pensiero vero si possono mettere tranquillamente in scena dei pensieri finti.

Nei reality la gente finalmente si può accapigliare se è meglio buttare fuori da una casa uno destinato a diventare addirittura “spin doctor” di un Presidente del Consiglio, oppure se elevare a rango di cantante qualcun’altra che sarebbe stato meglio fosse rimasta ad enucleare note e rime sotto la doccia. Ma un reality è per definizione un festival del verosimile, qualcosa concessa per dare la sensazione di quanto ancora sia importante il parere della gente comune. E noi ci si casca come delle trote di un lago artificiale adibito a pesca sportiva (si fa per dire), arrivando praticamente esausti di emozioni davanti a delle scelte ormai diventate troppo complicate e faticose per prenderle sul serio. Allora meglio affidarsi alla stampa, che facilmente convince come su alcuni argomenti la posizione debba essere una , e solo una. Tirarsi una secchiata d’acqua gelata come segno di solidarietà per i malati di Sla, tingersi dei cosiddetti colori arcobaleno per solidarietà con la comunità LGBT, inginocchiarsi per mostrare vicinanza al movimento “Black Lives Matter”, diventano improvvisamente tutte cose da doversi fare per forza, un segno distintivo di impegno sociale per non essere scambiati per anafettivi (nella migliore delle ipotesi) o razzisti e omofobi della peggior specie. Non oso immaginare come verrebbe trattato dalla pubblica opinione quell’unico giocatore, su ventidue, che dovesse rimanere in piedi al rito dell’inginocchiamento. Tenere alta la soglia di attenzione contro il razzismo è cosa buona e giusta, ma questa voglia di far entrare tutti “intruppati” in iniziative di cui non ne si comprendono fino in fondo tutte le finalità politiche e sociali, è francamente incomprensibile e sospetta. Nel caso del movimento “Black Lives Matter” è difficile dire quanti giocatori, e quanti nella pubblica opinione, abbiano avuto occasione di leggerne il manifesto “ideologico” e di meditarci un po’ sopra. A farlo si potrebbero scoprire cose interessanti e magari non propriamente tutte condivisibili (sempre se si è ancora in uno stato di libertà). E magari sfogliando alcune pagine del quotidiano “la Repubblica”, si potrebbe scoprire una corrispondenza dagli Stati Uniti in cui si narra di scontri furiosi all’interno della dirigenza del movimento nato attorno alla triste morte di George Floyd, riguardanti la gestione dei flussi finanziari e acquisti immobiliari opachi da parte dei vertici del movimento. Ma gli imbarazzi del mondo dello sport di fronte ad uno scorrere del mondo non sempre piacevole, non sono iniziati e non finiranno certamente con questi europei di calcio.

L’anno prossimo tutte le tentazioni di proteste planetarie si trasferiranno in Qatar, un Paese non certo famoso per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. A quel punto potrebbe nascere una nuova onda di comunicazione con la pretesa di chiedere agli atleti manifestazioni visibili della loro contrarietà al regime degli Al Thani, che ha chiuso tutti e due gli occhi di fronte ai 6500 (ma il numero non ufficiale, secondo una recente inchieste del “The Guardian”, potrebbe essere molto più alto)  lavoratori morti per la costruzione della infrastrutture necessarie allo svolgimento dei mondiali di calcio del 2022. Il palmares dell’ipocrisia spetta alla politica, pronta a chiedere agli atleti quella che essa in primis non riesce a fare, ovvero prendere una posizione contro chi viola i diritti umani. Perché è molto più facile prendersela contro un calciatore restio ad inginocchiarsi in un partita di calcio europea, che non convincere un’atleta a prendere posizione contro i diritti umani continuamente violati in Cina, mentre sono in corso le Olimpiadi di Pechino del 2008. I soldi e il mercato cinese sono importanti, come sono importanti i soldi e il gas del Qatar, per cui meglio in questi casi far tacere il politicamente corretto  sempre pronto a scattare quando non c’è dazio da pagare. D’altronde tutti decisero di partecipare alle Olimpiadi tedesche del 1938, nonostante le “Leggi di Norimberga” e l’ormai chiara natura  totalitaria e razzista del regime instaurato da Adolf Hitler. Il politicamente corretto si adopera sempre quando il rischio di perdere qualcosa è pari allo zero, in caso contrario si adottano gli esercizi verbali a disposizione delle diplomazia di ogni tempo abile a trovare una buona scusa per far mandare giù qualsiasi tipo di boccone indigesto.

E’ banale ricordare come la vita sovente sia esercizio complicato, specie in un’epoca dove ormai ogni gesto o ogni non gesto rischia di fare istantaneamente il giro del mondo attraverso i vari mezzi di comunicazione. Si condannano i giocatori perché non si inginocchiano, e si criticano i giocatori che rimuovono davanti a loro bottiglie di Coca Cola e di birra, perché i diritti degli sponsor vanno rispettati. Insomma, comunque la facciano, i giocatori sbagliano; forse perché guadagnano così tanto e così tanto facilmente, da meritarsi qualche rottura di scatole da sopportare pazientemente. Non sono liberi di criticare una bibita gassata, non sono liberi di non essere d’accordo con “Black Lives Matter”. In parole povere: visto che sono troppo ricchi, troppo famosi e, probabilmente, troppo scemi, non possono e non devono essere liberi. Un piccolo prezzo da pagare per la loro vita dorata e piena di privilegi. Il mondo cambia, si evolve, e probabilmente oggi a Gianni Brera sarebbe stato impedito di scrivere alcuni dei suoi splendidi resoconti di sport, dove le descrizioni di alcune caratteristiche etniche e di razza gli servivano per raccontare la storia di luoghi e di persone. Il grande giornalista lombardo in questo tempo disgraziato sarebbe ridotto alla condizione di un eunuco della scrittura, e la sua ironia non solo sarebbe poco compresa, ma additata al pubblico ludibrio. Inebetito, Giovanni Brera fu Carlo scoprirebbe a sue spese come per prendere una posizione dovrebbe prima aspettare l’omelia del mainstream culturale, notaio sociale dei comportamenti da tenere. Ayrton Senna, indimenticato campione della “Formula1”, sosteneva come non ci fosse una curva dove non si potesse sorpassare, ed è proprio di fronte ad una gigantesca ed inestricabile curva è arrivato lo sport contemporaneo. Interessi vari, soldi, potere lo stanno provando oltre ogni limite e oltre ogni pazienza, e per provare a sorpassare occorrerà un’immaginazione e un coraggio difficile in questo momento anche solo da prefigurare. Il razzismo è qualcosa che esisterà sempre, un po’ come il vento; quindi inutile provare a fermare il vento, come scrive Cervantes nel “Don Chisciotte”, piuttosto sarebbe meglio imparare a fabbricare mulini. Magari non servirà a dare un senso a tutto il vento presente nel mondo, ma qualcosa fa. Sì, direi proprio che fa.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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