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Il calcio che cade in ostaggio

Il saluto militare della Nazionale turca dopo Francia-Turchia. Immagine da Instagram: @burakylmzfc

Loquor / Essere dubbiosi non vuol dire avere l’inclinazione all’esitazione perpetua, eterno postulato del non prendere mai posizione su niente

Anthony Weatherill

"“Pace in casa, pace nel mondo”.

"Kemal Ataturk

“Il calcio è dubbio costante e decisione rapida”, ha scritto Osvaldo Soriano in “Futbol-Storie di Calcio”. Poche cose, nella mia ormai lunga esistenza, ho amato come il grande giornalista e scrittore argentino. Questo perché aveva il raro talento di saper racchiudere in una frase una verità che consentiva, al fortunato lettore, di immergersi in un mondo scoperto improvvisamente di sapori infiniti. Il dubbio costante del calcio è la rappresentazione raffinata della costante precarietà in cui tutti gli esseri viventi attraversano l’esistenza. Essere dubbiosi non vuol dire avere l’inclinazione all’esitazione perpetua, eterno postulato del non prendere mai posizione su niente. Essere dubbiosi vuol dire perdersi nell’arte principe di ogni azione umana, sin dai tempi primordiali della presenza umana sulla terra: l’arte del pensare. Pensare dopo aver osservato, più o meno bene, tutto ciò che in un dato momento circonda. Accerchia. E l’accerchiamento, anche dalle nostre paure, in genere si riesce ad uscire solo con una decisione rapida. Significativa. Ad esserne capaci, secondo Soriano, sono quei giocatori “che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Questi sono i profeti. I poeti del gioco”. Allo “Stade de France”, nell’ultima partita di qualificazione agli europei giocata contro la Francia, i calciatori della nazionale turca hanno di sicuro, nel fare al termine dell’incontro il saluto militare,preso una decisione rapida. Un’azione fatta in omaggio al nuovo sultano che regna dalle parti di quello che fu il potentissimo impero ottomano. Recep Tayyip Erdogan ha chiamato “Primavera di pace”, non senza un lugubre esercizio di ironia involontaria, l’attacco alla popolazione curda cacciata da circa cento chilometri di Siria. Decisione rapida, questa dei giocatori turchi, presa perché, secondo alcuni osservatori, essi sono in una evidente condizione di ricatto da parte del potere dispotico di Erdogan. Se qualcuno si fosse defilato dal saluto militare al termine della partita con la Francia, sempre secondo questi osservatori, non avrebbe messo a rischio solo se stesso, ma anche la sua famiglia. Questa ipotesi, che potrebbe avere anche un fondo di verità, appare un po’ semplicistica e, soprattutto, non pone in essere alcune doverose domande: può la Turchia far parte di un qualsiasi contesto europeo? Può l’Uefa voltarsi dall’altra parte, come se il fatto allo Stade de France non fosse accaduto, di fronte ad una evidente politicizzazione di un evento sportivo? Può l’opinione pubblica europea accettare che una sua invenzione culturale storica,il calcio, venga utilizzata per sostenere una vera e propria pulizia etnica contro il popolo curdo? Si sa come storicamente la Turchia sia il confine incandescente tra Cristianesimo e Islam, un confine oltre il quale si precipita letteralmente in un altro mondo culturale rispetto a quello europeo.

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Sia chiaro come non ci sia in quest’ultima osservazione un giudizio di valore, ma solo un prendere atto di una realtà oggettiva. L’Europa ed ogni sua manifestazione politico/socio/culturale, quindi anche il calcio, è fondata, usando le parole di Benedetto XVI,”sull’incontro tra fede e ragione, tra la rivelazione ebraico-cristiana e la parte migliore del pensiero greco”. Questo incontro è stata la scintilla su cui ogni cosa si è affacciata, nel corso dei secoli, nel Vecchio Continente. Marxismo, liberalismo, lo spirito di competizione sistematizzato in regole condivise, il welfare, e soprattutto la libertà e la parità di diritti per tutti, l’abc elementare di una pacifica convivenza tra cittadini e nazioni. Il calcio, nato in Europa come declinazione pacifica delle molteplici manifestazioni identitarie, sembrerebbe non avere molto in comune con la manifestazione che parte dell’Islam da di se stesso nella nostra contemporaneità. La Fifa, l’Uefa e tutti i responsabili dello sport mondiale fanno finta di non sapere cosa potrebbe accadere se una squadra ebraica(sottolineo ebraica, non solo israeliana) si trovasse a giocare una partita in un qualsiasi stadio di Riad. Davvero si può pensare ad una partita senza incidenti tra l’MTK Budapest, club in cui si riconoscono tutti gli ebrei magiari, e il Basaksehir di Istanbul, squadra fondata e finanziata da Erdogan e dai suoi amici dell’Akp, il partito di ispirazione islamica che fa capo al presidente turco? A leggere la dichiarazione del giocatore dell’Everton Caglar Soyuncu (“noi siamo importanti, ma i nostri soldati lo sono di più”) sembrerebbe che no, non si potrebbe pensare ad una partita pacifica tra MTK Budapest e Basaksehir in questo momento storico, in cui il revanscismo turco, fatto di fondamentalismo religioso e nostalgia imperiale ottomana, portato avanti da Erdogan appare una minaccia destabilizzante per tutto il confine arabo/europeo. Personalmente credo nell’adagio dello sport occasione di unità, ma unire non vuol dire chiudere li occhi. Non si può cercare pace e unità, quando una delle parti in campo chiaramente non solo non vuole partecipare a questa ricerca, ma anzi vuole approfittare della voglia di chi cerca pace e stabilità per perseguire liberamente, e senza nessuno scrupolo, dei determinati fini geopolitici. Quando le autorità politiche,sportive e non, non intervengono in modo risoluto, si lasciano nella storia degli uomini dei vuoti pericolosamente arbitrari d’interpretazione della realtà. L’Europa era già cascata, nel secolo scorso, nella voglia dissennata di cercare pace e stabilità ad ogni costo, trasformando lo spirito unitario dello sport in un concetto inutilmente retorico.

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Nel 1936, in piena ascesa del revanscismo pantedesco hitleriano, il Comitato Olimpico Internazionale permise a Joseph Goebbels, il potente ministro della propaganda del Terzo Reich, di trasformare la massima manifestazione sportiva mondiale, nata sin dai tempi dell’antica Grecia per essere appunto un appuntamento di pace e unità, in un formidabile strumento di propaganda del regime nazista. Tutti, all’epoca, fecero finta di nulla, fecero finta di non sapere delle persecuzioni xenofobe e razziste che avvenivano in quel momento in Germania, e non solo contro gli ebrei. Nessuno venne a sapere, o non volle sapere per ignavia o quieto vivere, della grande retata contro i cittadini rom effettuata a Berlino nei primi mesi del 1936. Prima o poi il Comitato Olimpico Internazionale dovrà ufficialmente chiedere scusa per aver assegnato nel 1936 le olimpiadi nelle mani dei nazisti. Perché se queste scuse non arriveranno, una possibile distorsione interpretativa sarà sempre possibile da parte di menti fragili e inopinatamente ideologizzate. Non è un caso che molti gruppi ultras europei siano attraversati da correnti neonaziste e fasciste, che per definizione sono di stampo razzista e xenofobo. Questi correnti si infiltrano nel calcio approfittando del suo carattere identitario, pervertendolo in una deriva violenta ed escludente che con il calcio nulla ha in comune e in relazione. Certi confini sono labili, certe porte possono essere aperte con facilità nel corso di liturgie collettive, dove l’essere insieme fa dimenticare improvvisamente la responsabilità individuale. La persona si massifica in uno stato di trance, e si ritrova a fare il saluto romano senza avere piena consapevolezza del suo reale significato. Ci vorrebbe qualcuno pronto a ricordare, in quel momento, come pugni alzati o braccia tese davvero non c’entrano niente con lo sport. La politica autoritaria (dittature e cose simili) e il potere economico sono purtroppo sempre pronti a sfregiare il mondo dello sport, uno  per uso strumentale al mantenimento del suo potere, l’altro per uso strumentale dell’aumento dei suoi fatturati. Inutile negare come il regime autoritario del Qatar, attraverso i mondiali di calcio del 2022, stia anche cercando una legittimazione politica agl’occhi del mondo, da cui è accusato di essere lo sponsor regionale dei “Fratelli Musulmani”, cioè dell’islam politico. E’ comprensibile come nell’epoca della quotidianità diventata spettacolo onnipresente, lo spettacolo debba andare avanti, ma non a qualsiasi costo, non chiudendo gli occhi di fronte a qualsiasi cosa. Le autorità dello sport mondiale devono combattere in una lotta senza quartiere chi vuole utilizzare lo sport per altri fini che non siano la competizione e il godimento di esse. Devono ricordare e ricordarci che lo sport non è transitorio come il potere politico, ma qualcosa di puro  soggiornante per sempre nella nostra memoria. A Sebenico, nel campetto dove Drazen Petrovic imparò a tirare a canestro, c’è un’iscrizione in memoria di colui che è considerato uno dei più grandi sportivi europei di ogni tempo: “durante la tua vita hai raggiunto l’eternità e lì resterai per sempre”. L’eterno non può essere sporcato  da un saluto militare di un calciatore. Si riconduca alla ragione Erdogan e, soprattutto, l’Uefa ripensi se sia opportuno giocare la finale di Champions 2020 allo stadio Olimpico Ataturk di Istanbul. Non lo merita la memoria di Kemal Ataturk, padre della Turchia laica moderna, non lo merita lo sport del nostro continente.

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.