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Se una fiction ricorda cosa è il calcio

Se una fiction ricorda cosa è il calcio - immagine 1
Torna un nuovo appuntamento con la rubrica Loquor, a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

Una dichiarazione di guerra,

di stato d’assedio, di pirateria”.

Da “I Ragazzi della Via Pal”

La cosa più interessante de “Il Grande Gioco”, recente serie Sky dedicata al mondo dei procuratori sportivi, non è la ricostruzione su come si muovano i tanti epigoni di Mino Raiola nei retroscena dello sport più seguito al mondo, ma un vetusto campo di calcio della periferia di Milano visto dai “buoni” (si fa per dire) come futura “academy” per giovani promesse del calcio, e dai “cattivi” come occasione di speculazione edilizia. L’eterna lotta per il “grund” descritto da Ferenc Molnar nei “Ragazzi della Via Pal” (capolavoro della letteratura magiara ed europea) viene riproposta perfettamente dalla fiction, perché è proprio lo spazio vitale di cui avrebbe bisogno il calcio la questione che continua ad essere assai poco discussa. “Nel calcio si può morire e si può rinascere” ha detto, a proposito della tempesta giudiziaria che sta investendo la Juventus, il Ministro dello Sport Andrea Abodi, che si è anche augurato (“a costo di essere giudicato un pericoloso sognatore”) della necessità di rendersi conto, da parte di tutti, di giungere alla chiarezza e alla responsabilità.

Abodi è un vero uomo di sport e chi lo conosce assai bene sa quanto egli sia un idealista senza illusioni, uno con il desiderio di avere un calcio migliore ma conscio di quanti ostacoli ci siano tra un qualsiasi punto di partenza e un ideale da raggiungere. Se si vede la rinascita come una “conditio sine qua non”, allora bisogna accettare senza riserve la morte come precondizione, e occorre rifiutare la sopravvivenza come orizzonte fattuale. Urbano Cairo e Claudio Lotito in queste ultime ore si sono visti sbattere la porta in faccia dal Governo sulla loro richiesta di rateizzare, senza sanzioni, i debiti fiscali del calcio, e ancora una volta il duo più comico dello sport italiano si è inerpicato in una analogia da avanspettacolo con il cinema. Non riescono ancora a comprendere (o proprio non vogliono surrettiziamente farlo), Cairo e Lotito, come il “tax credit” cinematografico non sia un aiuto di Stato alla “settima arte”, bensì una forma di investimento molto remunerativa effettuato dallo Stato stesso.

Un investimento che prevede prima un “dare” al cinema e poi un “avere” dal fisco da parte dell’investitore privato. Una forma d’aiuto (lo chiamo aiuto così magari il “Duo Lescano” della palla rotonda nazionale magari segue il ragionamento, nel caso avesse la ventura di capitare su queste righe) adottato da praticamente tutti gli Stati dell’Unione Europea e alla quale il nostro Paese è arrivato, al solito, buon ultimo. Un aiuto (infastidisce chiamarlo così, ma cosa bisogna fare?) che sta dando copiosi frutti all’erario italiano e a tutto l’indotto ruotante intorno al cinema (incassi per l’erario e per l’indotto aumentato di tre volte rispetto all’investimento del “tax credit”). Vediamo invece di cosa sia stato capace il “Duo Lescano” (spero il famoso e mitologico “Trio” possa perdonare l’audace e impertinente accostamento) in compagnia della “Banda Bassotti” della Lega Calcio negli ultimi vent’anni. Mentre le altre Leghe europee, nel lasso di tempo citato, hanno aumentato di sei volte i propri ricavi, la nostra Serie A è stata quasi eroica nell’operare una distruzione di valore tale da far impallidire il crollo borsistico del 29 a Wall Street, riuscendo nell’imbarazzante record di fare peggio della Ligue 1, che opera in un contesto francese dove non è certo il calcio ad essere il primo sport preferito dai transalpini.

Sostenere da parte del “Duo Lescano” come gli errori di gestione del cinema siano stati aiutati dal “tax credit”, e quindi allo stesso modo siano aiutati gli errori di gestione del calcio, non solo è artificio comico da cabaret ma è soprattutto una manifestazione di palese ignoranza in materia o di conclamata malafede. In ogni caso noi, con siffatta dirigenza calcistica, non si è per niente messi bene. La Serie A, come dimostrano tutti gli autorevoli studi di settore, è riuscita nell’impresa di far aumentare le spese più di quanto siano cresciuti i fatturati, e forse è su questa palese incapacità di gestire la baracca dovrebbe soffermarsi l’attenzione del “Duo Lescano”, invece di perdersi in ardite analogie e botte di invidia con il cinema. In pratica il calcio italiano ha speso disinvoltamente, al contrario dell’audiovisivo, soldi mai avuti. Nello spazio vitale del calcio indebitamente occupato non c’è solo l’avanspettacolo made in Lotito/Cairo, ma si è stanziata anche l’arroganza muscolare (declinata a suon di soldi piovuti dal metaverso energetico) di gente come Nasser Al Khelaifi, improvvidamente catapultato al vertice della “European Club Association” dopo la defezione, per i noti fatti legati alla “SuperLeague”, di Andrea Agnelli. Qualcuno potrebbe ritenere come, tra Agnelli e Al Khealifi, si sia caduti dalla padella nella brace, ma il timore della sottovalutazione di cosa davvero rappresenti la nomina di questo assai mediocre ex tennista figlio di un pescatore di perle, a cui il tennis ha permesso di conoscere Tamim bin Hamad Al Thani (sai quando la “pippa” piena di soldi vuole giocare con uno più forte di lui? Ecco, questa è stata la fortuna di Al Khelaifi), divenuto nel 2013 l’ottavo emiro del Qatar, è forte. La vita è una questione di snodi (gli anglofoni impenitenti direbbero “sliding doors”) e di adeguata “faccia di tolla”, e se ci si mette anche il delirio di onnipotenza come “educazione ricevuta” da una tipica autocrazia araba portata avanti, in modo del tutto illegittimo, anche in nome dell’Islam si potrà avere il quadro completo di quanto sia pericoloso il presidente del Paris Saint Germain.

Immaginiamolo per un attimo concionare, stravaccato su una lussuosa poltrona di pelle ricavata dall’animale più raro che ogni cacciatore di frodo possa uccidere, sulla questione SuperLega alla stessa stregua di un affare di famiglia, prendendo letteralmente a pesci in faccia club dal valore storico del calibro di Real Madrid, Barcellona e Juventus. Ipotizziamo di sentire il suono tra il minaccioso e l’irriverente delle sue parole, una sorta di invito ai suddetti club a non giocare la Champions League se non gli piace, esortandoli a impegnarsi solo nei campionati. “Se a me non piace una cosa semplicemente non la faccio”, ha detto con grossolana noncuranza il pescatore di perle baciato dalla fortuna di aver avuto tra le mani una racchetta, e questa considerazione ha rivelato ancora una volta, semmai ce ne fosse stato il bisogno, di come questo tizio nulla abbia capito del calcio europeo e nulla sappia del rispetto dovuto dalle nostre parti alla Storia, fatta da persone non da numeri fatti cadere da una impalcatura senza protezione solo perché il tuo sceicco vuole stupire l’universo attraverso degli stadi. Uno responsabile di queste parole dovrebbe essere immediatamente accompagnato alla porta dello sport più seguito al mondo e lo si inviterebbe a non farsi vedere più dalle sue parti. A questo signore sfugge come il calcio non sia di proprietà dei presidenti, e di come essi non possano ignorarne i riti solo perché non li gradiscono. È davvero incomprensibile un’Europa continuamente tesa a dibattere di diritti, alcuni confusi con le “possibilità”, e poi silente davanti a soggetti come Al Khelaifi convinti di poter prendere letteralmente a calci la sua memoria e la sua cultura.

Ci siamo talmente dimenticati dello spazio vitale del calcio, da essere diventati ostaggio di Paesi che giocano sulla pelle di nostre legittime scelte. La Serie A va a giocare la finale della “SuperCoppa Italiana” in Arabia Saudita? Al Khelaifi per ritorsione non rinnova con la nostra Lega un contratto da 112 milioni di euro per distribuire i contenuti delle sue partite in Medio Oriente attraverso “Bein Sports”. “Lo sport non deve essere vetrina per nessuna politica”, è lo sberleffo finale del bullo di Doha. Fanno e disfano a loro piacimento le elite impossessatesi del calcio, sono imbevute di una curiosa forma di psicopatia responsabile di occultargli la differenza tra il bene e il male. “La verità è una esperienza” scrive Tommaso d’Aquino, “è Ulisse che cerca di tornare a casa per riappropriarsi dell’appartenenza e del suo nome”. Il campo da calcio conteso ne “Il Grande Gioco” per tutti i motivi del mondo tranne per quelli del calcio, ripropone alle menti più avvertite il concetto di “città”, in cui da ogni nostra “camera con vista” abbiamo seguito lo sviluppo della cultura occidentale. Il calcio è un fatto sociale e un processo collettivo orientato a prefigurarci un modo di vivere ideale, perché cresciuto attraverso generazioni di attese e desideri. Esso è prassi e teoria, ed è triste vedere come qualcuno voglia ridurlo ad una prassi padronale. Teniamo duro e speriamo, pur non essendo Rossella O’Hara, in un altro giorno di un domani migliore.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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