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Se a preoccupare è la Coppa d’Africa

Se a preoccupare è la Coppa d’Africa

Torna l'appuntamento con "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi, che parte dalla citazione di Schopenhauer: “La mia epoca e io nonandiamo d’accordo”

Carmelo Pennisi

“La mia epoca e io non

andiamo d’accordo”.

Arthur Schopenhauer

Sarà difficile raccontare quest’epoca ai posteri, visto come sia difficile codificarla con qualche riferimento ideale ben definito. Ad osservare l’oggi con attenzione, ad afferrarne tutto il profluvio di parole, potrebbe essere facile, ma davvero molto facile, carpirne l’assenza di idee. È come se non ne avessimo più, come se fosse stata smarrita la cornucopia da dove dall’inizio dei tempi se ne sono potute estrarre senza limiti di sorta. Si è persuasa la gente ad abbandonare le vecchie idee, nella convinzione come ce ne fossero di nuove all’orizzonte. Ma niente, non si avverte nessun sobbalzo dovuto ad una lampadina che si accende. Il genio si è perso, almeno per il momento, e quindi non resta che affidarsi agli istinti primari: mangiare, respirare, accoppiarsi, salvarsi la pelle il più a lungo possibile. Il dolore è sempre presente, certo, ma è proprio la sua rimozione come idea ad essere stata accettata per la prima volta nella storia. Se William Wallace, a Stirling nel 1297, avesse provato a fare un discorso sulla necessità della libertà a costo della vita, probabilmente con gli uomini di oggi si sarebbe ritrovato da solo a combattere contro gli inglesi.

Oggi si fa rumore (la parola “battersi” sarebbe proprio fuori luogo da usarsi) solo per qualche diritto secondario di natura soggettiva, dove non si rischia nulla, se non qualche arrabbiatura e qualche brutto mal di fegato. Attenti all’entusiasmo per le Termopili, ormai quello è roba da film o da fumetto, e si badi ad alzare di corsa il volume dello scetticismo, perché figurati se trecento spartani possano essersi sul serio sacrificati per dare tempo ai loro compatrioti di organizzare una difesa per la libertà. in questo canovaccio di pavidità, egoismo, solipsismo degenerante, ecco farsi largo l’idea di una riforma del calcio come oggetto di consumo. Lo si fa lasciando al giornalismo sportivo, mai caduto così in basso nella mediocrità di assenza di idee (tanto c’è sempre la concorrenza di internet con cui prendersela), la licenza di arrabattarsi in polemiche da osteria o in articoli e trasmissioni tv di così basso cabotaggio da chiedersi perché alcuni si siano ostinati, un giorno, a perseguire la via del giornalismo. Così l’alta supposizione di sé induce qualcuno a scoprire con veemenza (sic) come a gennaio ci sarà la Coppa d’Africa, colpevole di togliere per un mese alle Leghe europee le prestazioni dei calciatori africani. Sempre questo qualcuno, che sta al giornalismo come un asino al Derby di Ascot, si lamenta poi di tifosi a cui è permesso di assembrarsi in qualche stadio privo di telecamere di sicurezza, al contrario di quelli costretti a mantenere le distanze in quelli dove l’occhio del grande fratello digitale è presente.

Secondo questi menestrelli da corte medievale (non lo capiranno, ma in fondo gli si sta facendo un complimento), l’intensità del tifo arriverebbe in modo diverso da squadra a squadra. Se a giocatori africani si contrappongono scelte più da occidente con amalgamate ricorrenze vacanziere, ecco il grido di dolore e dell’indignazione levarsi forte verso il cielo. “Il presidente, il mio presidente, dovrebbe fare il diavolo a quattro per far cessare questo scempio di scorrettezza sportiva. Perché punire chi ha scelto gli africani”? Sono i Biscardi 3.0, che al contrario dell’indimenticato rosso impomatato del giornalismo sportivo, non hanno nemmeno il senso autoironico, per decenni fulcro del successo del suo “Processo del Lunedì”, a giustificarne le iperbole da avanspettacolo. La mancanza dei fondamentali è il problema di alcuni di questi personaggi, che prima di perdersi in scenari da “Tutti gli Uomini del Presidente”, dovrebbero prendere qualche informazione per conto di quei poveri disgraziati intenti nella ventura di ascoltarli convinti ne sappiano più di loro (indimenticabile fu la faccia improvvisamente diventata terrea di un direttore di un quotidiano da élite capalbiese, quando non seppe rispondere sul nome dell’autore della “Tassa sul Macinato”).

 LUBANGO, ANGOLA - JANUARY 17: Nicolas Nkoulou (L) of Cameroon and Jacob Mulenga of Zambia jump for the ball during the African Nations Cup group D match between Cameroon and Zambia at the Tundavala National Stadium on January 17, 2010 in Lubango, Angola. (Photo by Lefty Shivambu / Gallo Images / Getty Images)

L’edizione della Coppa d’Africa era stata programmata nel luglio 2021, ed è solo a causa degli effetti della pandemia da Covid-19 che la “Confederation of African Football” (CAF) si è vista costretta a spostarla nel prossimo gennaio. È sempre per mancanza di fondamentali, quelli del buon giornalismo, come qualcuno non si renda proprio conto come le estati siano completamente state monopolizzate dal calcio occidentale (adesso ci si è messo pure il nuovo Mondiale per Club), rendendo ancora più difficile, anche per evidenti problematiche climatiche (non bisogna essere un’icona come Greta Thunberg per saperlo, basterebbe solo leggere un pochino), la vita dell’organizzazione di una coppa continentale in Africa. Una riflessione seria, provando ad aggrapparci disperatamente ad Aristotele, può avvenire solo quando l’intelletto sa di conoscere, ovvero quando l’episteme (il sapere certo) formulato da Platone riesce a contrapporsi con successo all’opinione del singolo. Scomodare i grandi pensatori greci per narrare le gesta di giornalisti impegnati nell’invettiva di convincere qualche giocatore a “incatenarsi” a indefinite gabole giuridiche per non andare a rappresentare la propria nazione, potrebbe apparire esagerato; ma a volte per rispondere all’insipienza umana non rimane di provare a volare il più in alto possibile, nella speranza che il “rincitrullirsi” progressivo di qualche mente possa stopparsi ed avviarsi verso un saggio ravvedimento. Sarebbe facile ricordarsi, prima di avventurarsi in analisi alla “Amici” di Maria De Filippi, come arruolare giocatori africani nei propri “roster” non l’abbia ordinato il medico, trattasi di scelta consapevole di presidenti, direttori sportivi, allenatori.

Ma una delle “non idee” tipiche di questo inizio di terzo millennio è quella di provare a forzare la mano, imponendo uno stato di fatto a dei regolamenti chiaramente definiti e stabiliti. Il provare a legiferare surrettiziamente attraverso uno status quo è parte della storia italiana (esempio iconico sono le case abusive condonate), e si finisce sovente per far passare come mostri insensibili chi prova a far rispettare la legge. Che un certo tipo di giornalismo inneggi allo scompaginamento delle regole, tra l’altro cercando di penalizzare un continente già molto penalizzato di suo, è la prova di una stampa italiana ormai in gran parte ridotta a mera cassa di risonanza. È assai avvilente, poi, definire delle telecamere, installate in uno stadio per la sicurezza stessa dei suoi frequentatori, un deterrente della trasmissione della passione dei tifosi agli attori in campo, nonché un limite alla corsa della conquista di un qualche traguardo. Ma quando si cessano di avere idee, il risultato è quello di far precipitare tutto nel deserto dell’incoscienza, scambiata pericolosamente come un felice traguardo raggiunto. L’incoscienza è qualcosa di primitivo, un precipitare a un momento delle origini dove non esisteva memoria e conseguentemente il ricordo di esperienze a sorreggere con certezza qualsiasi iniziativa. Si è talmente nelle tenebre da non sapere più niente non solo sul tuo ruolo, ma persino sulla tua identità. Il giornalismo italiano attualmente è proprio giunto in questa stazione esistenziale, aggravandola con la scelta di regredire non solo agli istinti dei suoi possibili lettori, ma addirittura assecondandoli. La stampa è diventata, da fondamentale potere terzo quale era, un prodotto da vendere. Non servono più arguti narratori di mondi, ma venditori porta a porta di notizie relegate allo status di merce. Aver partorito la “SuperLeague” come unica ancora di salvezza per il calcio, è proprio la tipica “non idea” del nostro tempo, la logica conclusione del nostro stato di incoscienza e di concupiscente complicità. Il meglio che sapremo recapitare dalla nostra epoca, è quella di una moltitudine di uomini in fila per farsi un vaccino aduso ad allungare, dicono, la nostra vita, di cui non sappiamo più un perché né un per come. E quando ad un museo dell’audiovisivo i posteri visioneranno il film “Braveheart-Cuore Impavido”, sarà nella sezione “Commedie e Farse”. In quel tempo il giornalismo non potrà opporre l’arte del dubbio, perché sarà stato sostituito definitivamente dalla pubblicità, notoriamente arte della certezza. Sarà il tempo della “Super League Mondiale”, giunta in salvezza della “SuperLeague” europea, in crisi di ricavi ed eccessivi costi di gestione. Tutto cambia…

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

 

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