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Oltre il tempo, il Fila

ToroSofia / Torna l'appuntamento con la rubrica di Elisa Fia: "A volte, quando ci si trova emotivamente coinvolti in determinati eventi, il tempo stesso perde la sua identità"

Elisa Fia

In questo periodo di quarantena cerchiamo di ripercorrere i luoghi del Toro con la mente. Sembrerà così di uscire fuori di casa, almeno per un istante, per fare una breve passeggiata nel nostro amato mondo granata.

Non sempre il tempo è come ce lo aspetteremmo. A volte, quando ci si trova emotivamente coinvolti in determinati eventi, il tempo stesso perde la sua identità: non si può parlare più di passato, presente o futuro. C’è solo l’attimo, che si dispiega in tutte le direzioni possibili e si divide, percependo in sé ciò che sembra essere infinito. In quel preciso istante, tutto è questione d’intensità.

Per quanto astratto possa sembrare questo discorso, credo fermamente che chiunque abbia messo piede, almeno una volta, al Filadelfia sappia certamente a quale sensazione si fa riferimento quando si parla di “percezione dell’infinito”. Sì, perché l’infinito è quella (a)dimensione spazio/temporale che ha a che fare con il tempo in quanto assoluto, eterno: una dimensione sospesa che crea un vuoto da non identificare con la mancanza.

Proprio nel vuoto, silenzio tombale, del Filadelfia, quando alcuna voce lo riempie, si può percepire il concatenamento che lega ogni elemento granata alle altre parti di esso. Dentro il “Fila” si compie la storia e non nella maniera tradizionale ma in modo inusuale, perché fare storia non vuol dire ripercorrere nostalgicamente le glorie passate, ma sentire il legame con esse, apprenderne l’emergenza e, sempre con esse, fare un corpo unico che, pulsante, chiamiamo Toro.

Il Fila è l’esemplificazione del suddetto attimo, dove passato, presente e futuro svaniscono nel modo in cui sono differenziati, per farsi sostanza unica, impartibile: perché qui si sente tanto il peso di ciò che è stato, quanto il peso di ciò che è e che sarà. Non c’è spazio per i rimpianti, per le mancanze che si fanno desiderio, in quanto identificare il desiderare con il mancare vorrebbe dire rivolgere al Toro un triste affetto. Per la tristezza al Fila, tuttavia, non c’è abbastanza spazio, perché tutto quello che c’è (partendo dagli spalti fino a dentro gli spogliatoi) ha il sacro diritto di essere impiegato per desiderare in maniera produttiva, per concepire il Toro non come mancanza, ma come continua operazione di crescita.

Non è nemmeno un caso il parlare di sacralità in questo ambito, in quanto il Filadelfia non è solo uno stadio o un campo, è indefinibile. Sfugge da qualsiasi tipo di identificazione che il gergo calcistico potrebbe attribuirgli. Il Fila è tempio. Fenice che risorge dalle ceneri di un passato tragico e sempre glorificato, sempre attuale: non-luogo che si rende degno di ciò che è accaduto in lui. Trasmissione di ideali che, come l’erba che cresce nel mezzo, si fa centro del battito granata.