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Le Loro storie, Claudio De Sousa: “Mi ritirarono l’idoneità, ho pensato di aprire un MC Donald’s”

Le Loro storie, Claudio De Sousa: “Mi ritirarono l’idoneità, ho pensato di aprire un MC Donald’s” - immagine 1
Esclusiva / Gioiellino laziale prima, meteora granata poi si racconta dopo il lungo stop: "La mia seconda carriera iniziata a 27 anni per colpa di una vena, troppo tardi per sognare la A"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Pochi se ne ricordano, ma il macchinoso e inconsistente Claudio De Sousa (11 presenze e un gol nel 2005/'06 e zero presenze come cavallo di ritorno nel 2006/'07) era additato come "The next best thing", uno dei più promettenti talenti della sua generazione. In un istante, nel tempo di un battito di ciglia o, meglio ancora, nell'attimo di un tacchetto che colpisce una caviglia, cambiano, in ordine valoriale sparso, la sua carriera, la sua vita, il suo futuro, i suoi sogni. Lui però, non si dà mai per vinto. Questa è la sua storia dopo quel bivio.

Ho pensato di dovermi costruire in fretta un’altra strada, ci ho pensato eccome. Mi sono informato per prendere in gestione un Mc Donald’s, poi per aprire un negozio di intimo e perfino una lavanderia a gettoni. In quegli anni, con i miei amici che avevano voglia di investire qualche soldo ho vagliato tutte le possibilità. Ma avevo solo 23 anni e c’era sempre la speranza di poter ricominciare. Peccato che non sapessi quando.

A 17 anni già giocavo in Serie C, osservato speciale di tutte le Nazionali giovanili, dalla U16 alla U20; poi alla Lazio in Primavera e subito aggregato alla Prima squadra di Mancini. La stagione dopo fisso nel gruppo di mister Caso, l’esordio in Serie A, il gol (assist di Pandev, piattone destro sotto porta) e capitan Di Canio che mi porta sotto la Nord e mi indica per ricevere gli applausi. Ero al settimo cielo, all’apice di tutto ciò a cui può ambire un ragazzo che gioca a calcio. Mi sentivo forte, ero forte e in tanti mi dimostravano stima. Ho vissuto anni bellissimi.

Poi quel giorno a Pescara, un contrasto e sento pizzicare sotto il malleolo. Quel colpo mi ha fatto chiudere una vena e da quel giorno la mia vita è cambiata. Parestesia dell’avanpiede, appena provavo a correre mi si addormentava il piede. “Nessun problema per la salute – mi dissero i medici dopo mesi a cercare una diagnosi –, ma la carriera è finita. Non sappiamo quanto tempo ci va per tornare in condizione di giocare. Potrebbero servire cinque o dieci anni”. E mò che faccio?

Un calciatore che rimane fermo per un anno o due è già morto, esce da tutti i giri possibili. Mi hanno tolto l’idoneità sportiva per cui in Italia io non potevo più giocare a livello professionistico. Sono stato forte a non mollare e con me gli amici di una vita e i miei genitori.

Mio padre arriva dall’Angola, portato in Italia da un gruppo di preti missionari insieme ad altri orfani e bambini bisognosi all’età di dieci anni. A Roma ha studiato, è cresciuto ed è diventato infermiere, un mestiere che ama e che esercita ancora oggi al San Giovanni nonostante i quasi 70 anni.

Mia madre invece è marchigiana, lei e papà si sono conosciuti nella pizzeria in cui lavorava. Sono orgoglioso dei miei genitori,  hanno cresciuto me e mia sorella (più piccola di quattro anni) senza farci mancare nulla, anche se non navigavano di certo nell’oro. Si toglievano il pane loro per darlo a noi.

La loro storia fu particolare perché all’epoca non c’erano tante coppie mie, ma mia madre è sempre stata una persona intelligente, di mente aperta, arrivando da una famiglia con nove tra fratelli e sorelle. Ho avuto l’infanzia felice di qualsiasi bambino italiano al 100% e sono contento delle mie origini. Quando ero al Toro mi proposero di giocare con la Nazionale dell’Angola, poi non se ne fece nulla.

Sono stato fermo quasi tre anni per quella piccola vena occlusa. Momenti che non scordi, emozioni negative forti, ma non ho mollato. Mi rimase in mente una frase dei dottori: “allenare i muscoli del piede, potrebbe accelerare il processo di guarigione”. Ero a casa, da solo, senza contratto e senza la possibilità di giocare, ma iniziai ad allenarmi tutti i giorni: per strada, in vacanza, ovunque fossi andavo a correre, in palestra, giocavo a calcio a otto. Quando il piede iniziava a indolenzirsi, mi fermavo e poi ripartivo. Tutto questo mi ha permesso di farmi trovare in buona forma fisicia quando si è presentata l’opportunità.

Non avendo l’idoneità per l’Italia, ho provato a vedere come stavo nel campionato Sanmarinese. Stavo bene, ho segnato 19 gol, però ho dovuto aspettare un altro anno per avere documenti, superare le visite e recuperare la licenza per giocare a calcio. Un mio carissimo amico mi ha dato l’opportunità di ricominciare a Chieti e, dopo quasi tre anni fermo, il solo fatto di tornare in una categoria professionistica è qualcosa di molto raro. Ero talmente allenato, motivato e felice di poter tornare in campo che ho segnato 18 gol.

Il problema è che la mia seconda carriera è iniziata a 27 anni. Covavo ancora la speranza di tornare in vetta e, effettivamente, mi chiamò subito il Crotone in B, ma preferii l’Aquila per un discorso economico. Fu l’ultimo treno importante. Ora di anni ne ho quasi 33, gioco con la Viterbese in C, abbiamo appena perso la Coppa Italia, ma io sto bene. Conto di fare almeno altre tre stagioni di professionismo, poi penso che scenderò di categoria finché mi diverto. Quando sentirò di non farcela più, smetterò e difficilmente rimarrò nel mondo del calcio. Cosa mi inventerò per il futuro dipenderà anche dal momento storico in cui appenderò (serenamente) gli scarpini al chiodo, ma adesso non ci sto pensando ancora a fondo.

Quel problema vascolare ha cambiato la mia prospettiva. Da talento emergente di una Nazionale giovanile che contava nomi come Viviano, Montolivo, Nocerino, a segnare in provincia. Avevo tutte le possibilità per fare molto di più, per costruire una carriera in A, minimo in B. Tanti compagni mi sono stati vicino in quei momenti, Di Canio mi ha citato anche in un suo libro. Ho fatto pace con me stesso: per giocare ancora in A dovrei fare 30 gol adesso in C, essere promosso e farne altri 30 in B. E comunque arriverei in A a 35 anni, chi ti piglia?

Ci vorrebbe un miracolo.

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