Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
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Le Loro storie, Robert Acquafresca: “Dalle umiliazioni al sorriso, la mia disillusione”
Esclusiva / Cresciuto nel Toro fino al fallimento, i sogni di Cagliari spezzati da Inter e Bologna. Il racconto sincero della carriera travagliata di un calciatore diventato uomo
I sogni schiacciati dal fallimento. Una rinascita nel Cagliari di Massimiliano Allegri che porta un 21enne a segnare 24 gol in due stagioni. Poi arrivano le false promesse. Anni senza gloria finiti ad allenarsi da solo al buio. La carriera, anzi, la vita di Robert Acquafresca è un ottovolante scosceso di gioie e brutali disillusioni. Non è facile parlarne, ancor meno riuscire a far pace con il proprio passato e guardare con ottimismo al futuro. L’ex promessa del vivaio granata ci è riuscito solo grazie alla sua famiglia, a cui oggi dice pubblicamente grazie.
Ero in auto, direzione Milano. Avevo 17 anni, stavo andando in via Durini a firmare per l’Inter. Mi chiama Cairo che in quel momento non era ancora presidente del Torino, era in trattativa per acquistare la società. “Vogliamo puntare su di te, sei un giovane promettente e vorremmo tenerti”, mi dice. “Solo per il Toro posso fare una cosa del genere”, gli rispondo. Arrivo a Milano, i dirigenti nerazzurri pensavano firmassi il contratto: “no, io aspetto il Toro”.
Le cose poi andarono per le lunghe, era già agosto inoltrato e io non potevo più aspettare, per cui alla fine accettai l’Inter che mi girò al Treviso, ma la mia vita avrebbe potuto continuare a Torino. Avevo fatto un bel ritiro con la prima squadra e Arrigoni mi aveva già annunciato che sarei stato la quarta punta, facendo la spola con la Primavera. Mi aveva chiesto se mi sentivo pronto. “Certo che sì!”, avevo esclamato senza falsa modestia. A quell’età vuoi spaccare il mondo e sognavo di esordire col Torino, di farmi un nome. Due giorni dopo la società è fallita. Non ho mai visto una squadra fallire all’indomani di una promozione… Nella sfortuna, però, quella situazione per me si è rivelata un fattore positivo perché sono andato via di casa, ho imparato tante cose, sono cresciuto. Se tutto fosse andato in un altro modo sarei senz’altro rimasto a vivere coi miei, avrei finito il liceo e la mia vita sarebbe stata sotto la Mole.
Non voglio dare le colpe agli altri, ma sicuramente avrei potuto avere una carriera migliore. Ripensando al passato, metà colpa me la prendo io, metà la lascio al destino. Io qualche scelta l’ho sbagliata: ad esempio quando all’Inter mi vollero cedere al Genoa con la minaccia di finire fuori rosa. Io accettai e finii poi per essere prestato all’Atalanta. Lì forse avrei dovuto essere più testardo e rimanere in nerazzurro. Avevo 21 anni, ero un patrimonio per loro e non credo mi avrebbero escluso dal gruppo. Avrei potuto giocarmi le mie carte fino in fondo.
Il mio cartellino però era ancora dell’Inter e fu proprio con loro che vissi una delle più cocenti delusioni: mi chiamò Marco Branca per dirmi che l’Inter voleva riscattarmi. Mi avrebbe telefonato la segretaria di Moratti per il trasferimento a Milano. Era fatta, parlammo a lungo della zona migliore dove prendere casa, mi consigliò il quartiere intorno a San Siro. Due settimane più tardi mi cedettero definitivamente. Per me fu una mazzata. Sarebbe stato il coronamento di un sogno anche a livello famigliare, visto che ho un padre e un nonno interisti.
In tante occasioni ho rifiutato offerte economiche molto allettanti perché ero giovane e volevo giocare con continuità. Mi volevano in Cina, a 25 anni non andai. Mi chiamò De Laurentiis per andare a Napoli, ma io avevo appena dato l’ok al Genoa e sono uno di parola. Prese Cavani che diventò il bomber che tutti conosciamo. Chissà, avrei potuto essere io il Cavani italiano…
Però non ho mai mollato, questo me lo devono riconoscere. A Bologna ho vissuto un periodo tremendo. Sono stato messo fuori rosa, hanno disatteso le opportunità che mi avevano prospettato e ho subito tante umiliazioni. Sono arrivati al punto di farmi allenare alla sera da solo dopo tutti gli altri e non mi accendevano neanche le luci, me ne hanno combinate di tutti i colori e la gente queste cose non le sa. Mi è capitato di sentire discorsi su di me che non stanno né in cielo né in terra. In molti pensavano che mi avessero messo fuori rosa perché mi ero comportato male, invece semplicemente non avevano avuto pazienza e avevano deciso che non rientravo più nei loro piani. Avevo un contratto importante all’epoca per cui tante squadre erano timorose nell’ingaggiarmi e il Bologna si rifiutava di contribuire a parte del pagamento. Mi sentivo prigioniero di quel contratto. Ma nella mia carriera, come dicevo, di soldi ne ho rifiutato tanti per avere la possibilità di giocare, per cui quando mi hanno messo fuori rosa ho scelto di non ridurmi lo stipendio. Mio papà guadagna 1.800 euro al mese e so bene il valore del denaro.
Ehi, ho solo 30 anni, diciamolo! Non è colpa mia se ho iniziato presto e sembra che giochi da secoli, non sono un vecchio. Ora sono al Sion, ma non ci sarei arrivato senza una mentalità da professionista. Dopo una stagione difficile come la scorsa, hanno voluto testare le mie condizioni fisiche. E io mi sono sempre allenato al massimo. Quando mi hanno relegato con la Primavera io non ho saltato un singolo allenamento. Qui in Svizzera sono felice perché mi sto riappropriando della voglia di giocare, del piacere di andare al campo e sentirmi parte di un gruppo. Il mio futuro da calciatore lo voglio vedere molto positivo perché di brutte notizie in passato ne ho già avute troppe. Non faccio previsioni perché nella mia vita le situazioni si sono ribaltate all’improvviso tante volte per cui è meglio non guardare troppo in là, ma ora sono cresciuto, ho delle priorità diverse.
Quando sei giovane e tutto va a gonfie vele sei un po’ annebbiato, non hai l’esatta percezione della realtà. In tanti salgono sul tuo carro. Finché continui a segnare il telefono squilla di continuo, se sei fuori rosa la suoneria non la senti più… Io sono fortunato ad aver avuto vicino mia moglie, il mio bimbo, i miei genitori. Ho capito che è fondamentale circondarsi di persone che ti vogliono bene, perché un gol segnato non significa nulla se non puoi condividerlo con la tua famiglia. Con Michela (la moglie, ndr) stiamo insieme dal primo anno di Cagliari, stagione 2007/’08, e lei ha avuto un ruolo importantissimo in tutto quello che ho passato. Lei ha vissuto gli anni belli della mia carriera, ma anche i periodi bui e ha sempre cercato di tirarmi fuori quel qualcosa da dentro e farmi andare avanti. Mi ha fatto capire che i problemi veri della vita sono altri e mi ha sopportato quando rientravo nervoso e scoraggiato. Se fossi stato da solo chissà quante cagate avrei combinato. Devo dire grazie a lei e a mio figlio. Una cosa che ho imparato è lasciare i problemi del lavoro fuori dalla porta. Quando entri in casa e trovi tua moglie e tuo figlio che ti fanno un sorriso grande, possono averti anche preso a pugni al campo, ti passa tutto in un istante.
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