Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
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Le Loro storie, Salvatore Masiello: “Ma quale cocco di Ventura?!”
Esclusiva / L'ex difensore granata con un passaggio all'Udinese alza il sipario sugli spogliatoi della sua carriera: "La verità sulla faccenda del piatto"
Dal Venezia del "suo" Zamparini ai rinnovi apparentemente estemporanei con il Torino, Salvatore Masiello, per tutti Sasà, ha vissuto diciassette anni intensi di calcio. Ha lavorato con Conte, ha lavorato con Ventura, ha menato su consiglio di Iachini. Ritorno al futuro di un uomo senza rimpianti, ma con molti aneddoti da raccontare.
Quando sono stato contattato per raccontare un po’ di me su Toro News non ero sicuro di volerlo fare. Sono uscito dal mondo del calcio da un anno e mezzo, ho tante cose a cui pensare e tre figli da crescere. A convincermi è stato l’entusiasmo di mia figlia grande, Sara, otto anni, nata a Napoli, ma tifosa del Toro. Era tutta contenta che volessero me per un articolo e questo mi ha dato la carica. Ho una bellissima famiglia: una moglie fantastica, Maddalena, poi Sara, Savio (5 anni) e Samira (2). Gli ultimi due sono nati al Sant’Anna mentre giocavo nel Torino, ma la piccola non è proprio interessata al calcio, il maschietto invece, lo ammetto, tifa Juve. Io da ex granata ho provato a portarlo sulla buona strada, l’ho iscritto alla scuola calcio del Toro, ma è durato un paio di settimane. Va a scuola con i figli di Paratici e Allegri per cui, per amicizia, mi è diventato juventino, lo hanno contagiato.
Mi sarebbe piaciuto continuare a giocare ancora qualche anno, ma più che altro per loro, per mostrare che lavoro faceva il papà. Mi hanno visto all’opera tante volte, li ho portati spesso in campo, ma erano troppo piccoli per capire bene cosa stava succedendo. Dopo la scadenza del mio ultimo contratto con il Torino mia moglie voleva rimanere a vivere qui. Io l’ho convinta a tornare giù a Napoli e ad andarcene in vacanza al mare, sicuro che poi sarebbe arrivata un’offerta di qualche squadra e avremmo comunque dovuto spostarci in un’altra città. Così non fu, rimasi disoccupato fino a febbraio 2016 quando mi chiamò il Mantova e quei sei mesi a Napoli furono pesantissimi. Era uno stress: ritmi diversi, modi di fare a cui non eravamo più abituati, parenti che ti suonavano il campanello a mezzanotte quando i bambini dovevano poi alzarsi presto per andare a scuola. Abbiamo vissuto male quel periodo. A Mantova sono stato bene, ho anche segnato nei playout e poi mi sono detto che quello non era più calcio (in C, rispetto a A e B, ndr) e che potevo chiuderla lì dopo sto golletto. In B avrei giocato anche gratis, ma ora è diventato un campionato più povero in cui i club investono sui giovani per poi rivenderli. Per me non c’è stato spazio e amen. Non sto male come tanti colleghi. Mi manca un po’ lo spogliatoio, le chiacchiere, correre in campo, però è un momento che sai che arriverà, fa parte del gioco.
Dopo quell’ultima stagione ci siamo ri-trasferiti a Torino. Questa città è stata una scoperta, si può vivere tranquilli, lasciare la macchina e girare il centro a piedi. È stata un’ottima scelta. Certo, manca il mare…
La mia storia col Torino è stata strana. Parte da Bari. Ventura, che mi aveva allenato a Bari, mi chiamò nell’estate del 2011 per portarmi in Piemonte. Il Bari aveva le casse in rosso e voleva monetizzare, ma le due società non trovarono l’accordo. La situazione si sbloccò nel gennaio successivo, io firmai per il Toro sapendo già che non avrei messo piede in campo fino a fine campionato. Ventura mi disse che saremmo stati promossi per cui io sarei stato un acquisto per la stagione seguente in A e in effetti io feci una sola presenza, all’ultima giornata. Non so quanti giocatori avrebbero accettato una condizione del genere.
Il mister, devo dire, fu di parola e io iniziai a giocare con continuità, ero contento. Nel campionato successivo tornai a essere un semplice rincalzo, tra scelte tecniche e qualche piccolo infortunio. L’infortunio prima del derby fu una mazzata. Arrivavo da un buon periodo, ero entusiasta e invece a cinque minuti dalla fine del riscaldamento sentii tirare il polpaccio. Non riuscivo nemmeno ad appoggiare il piede. In quel momento ho pensato che la mia avventura sotto la Mole fosse finita, ma non ho mollato. Volevo recuperare bene e in fretta per cui non mi feci curare dai fisioterapisti del Torino, ma andai a Bologna in un centro specializzato dove mi ero già trovato bene in passato. Tutto a spese mie. Non chiesi nulla alla società e pagai di tasca mia, nella speranza di dimostrare la mia volontà al presidente e all’allenatore. E, in effetti, credo influì anche quello per il rinnovo del contratto. In realtà io avevo una clausola per un secondo anno che si sarebbe attivata automaticamente alla 25esima presenza. A cinque o sei giornate dalla fine ero a 24, ma la società venne a chiedermi se era possibile abbassare lo stipendio. Io sottolineai l’episodio delle cure e il fatto che era stato lo stesso mister a volermi in squadra. Si convinsero.
Cairo mi prendeva sempre in giro chiamandomi “cocco di Ventura”. Io semplicemente lo conoscevo dai tempi di Bari, dove gli avevo dato tanto. Mi ero guadagnato anche l’attenzione della Nazionale, ma ebbi una sfortuna simile a quella del derby contro la Juve. Mi avevano preannunciato la convocazione, ma all’86esimo dell’ultima gara prima della comunicazione ufficiale mi stirai il quadricipite. Sarebbe stata una bella esperienza, anche non giocando, ma essendo nei 23. Peccato.
Sta storia del “cocco” ebbe fine dopo un Parma-Torino. Il mister mi mandò a scaldare intorno al ventesimo del primo tempo, nell’intervallo il preparatore mi disse di intensificare gli esercizi perché Ventura era incazzato con Molinaro e forse lo avrebbe sostituito subito. Invece no, rientrarono gli stessi undici. Il Toro andò in vantaggio, poi raddoppiò e il Parma rimase anche in dieci per l’espulsione di Lucarelli. Molinaro accusò i crampi a una ventina di minuti dalla fine: Ventura mi guardò, io guardai lui e feci un paio di saltelli carichi per fargli capire che ero pronto, poi lui si girò verso la panchina. “Darmian, svestiti. Entri tu”. E io che sono stato tutta la partita a scaldarmi come uno scemo? Ho realizzato che era finita, che non volevo farmi prendere per il culo. Mandai un messaggio al presidente: “Ha visto? Ma quale cocco…”.
Io sono uno che se non gioca si allena il doppio, rimane a fare le ripetute per farsi trovare pronto, gioca le partitelle col sangue agli occhi. Ma sono sempre stato anche molto obiettivo. Quando c’erano Darmian e D’Ambrosio che andavano alla grande io non ho mai preteso di giocare, è giusto che giochino loro.Ma quando vedi che chi è in campo non è in condizione e fa qualche errore di troppo lì mi sembra normale provare a cambiare.
Ma Ventura è un tipo strano. Gli devo tanto perché fu lui a reintegrarmi nella rosa quando arrivò a Bari, ma è difficile avere un rapporto con lui. Non parla con tutti, ma solo con chi vuole lui. Se gli servi viene da te e ride e scherza, altrimenti lo saluti nei corridoi e lui abbassa la testa e non risponde neanche. Mi ricordo della rissa con Cerci. Al rientro negli spogliatoi dopo il primo tempo di un Torino-Milan era molto nervoso. Andò da Cerci e gli disse che lo avrebbe sostituito. “No, io non esco”, rispose Alessio. Iniziarono a insultarsi, arrivando quasi alle mani e dovemmo dividerli. Un casino. Cerci non la finiva più, continuava a lanciare cose e a inveire contro di lui che lo aveva prima supplicato di venire al Toro e adesso voleva farlo uscire dopo 45 minuti; Ventura invece spergiurò che non lo avrebbe mai più messo in campo: “Sputatemi in faccia se faccio ancora giocare questo!”. Cerci le giocò tutte fino a fine campionato…
A Conte invece devo dire grazie perché ti fa apprezzare di più il calcio, la preparazione alla partita, il sudore che devi metterci per arrivare pronto la domenica. Dopo che lo hai avuto come allenatore, vedi la differenza con gli altri suoi colleghi.Il nostro rapporto non finì bene perché mi mise fuori rosa, ma fui io commettere una cretinata. In principio fu lui a volermi fortemente al Bari. Ci incontrammo solo noi due e lui discusse tutti i dettagli con me. Io avevo la possibilità di andare al Chievo con Iachini che, per inciso, è come un padre per me. Ci capiamo a pelle, quando eravamo a Piacenza mi lasciava menare i miei compagni senza problemi, anzi. “Sasà, vai a menà quello che oggi sta a dormì”. E io eseguivo.
Tornando al Bari, tutto nacque da un tragico lutto in famiglia avvenuto la notte di capodanno a Napoli. Io tornai dalla pausa ancora scosso. Il 6 gennaio a Salerno l’arbitro mi espulse per un testa a testa con un avversario a seguito di un fallo. Rimasi in ansia negli spogliatoi per vedere la partita in tv, poi al triplice fischio me ne andai senza avvertire nessuno. Caricai in auto la famiglia e partii per Napoli, volevo stare vicino ai miei famigliari. Mi chiamò il team manager per sapere dove fossi e intimandomi di tornare perché Conte voleva parlarmi. Rifiutai e, in aggiunta, poi mi inventai qualche linea di febbre per rimanere qualche giorno in più. Non me lo perdonò e non servirono a nulla i tentativi di riappacificazione del presidente. Conte si infuriò e li mise davanti al bivio “o lui o me”. Il Bari era primo in classifica e Matarrese non poteva cacciare il suo allenatore per una cosa del genere. Mi chiese di sacrificarmi, dandomi garanzie sul futuro e il permesso per allenarmi a Napoli, se avessi voluto. Scelsi di rimanere comunque a Bari, allenandomi da solo, per dimostrare che volevo rientrare in gruppo. Non successe, ma ci fu un lato positivo nell’essere fuori rosa: nel girone di ritorno, proprio la partita contro la Salernitana diventò il perno dell’indagine sulle scommesse. Alcuni miei compagni si vendettero il risultato e si spartirono i soldi tra tutti in spogliatoio. Io non c’ero, per cui da me non vennero a offrirmi una parte. Avrei rifiutato, ma il fatto di essere fuori rosa in qualche modo mi salvò anche dall’omessa denuncia perché io ero proprio all’oscuro di tutto.
A Bari, per altro, ebbi anche il problema del “piatto”. Fu una storia ingigantita dalla società, già sull’orlo del fallimento, per rescindere il mio contratto che era uno dei più onerosi. Ecco come andarono le cose: un giorno di inizio stagione stavamo giocando in spogliatoio con le bottigliette d’acqua. Alcuni schizzi finirono su Zlamal, un portiere appena arrivato dalla Repubblica Ceca. Si alzò, venne da me e mi disse brutalmente di smetterla. Io gli risposi di non esagerare per due gocce d’acqua. Ridevano tutti perché pensavano mi avrebbe pestato. Io un po’ gliela giurai e la stessa sera in ritiro gli abbassai i pantaloncini, lasciandolo in mutande davanti al buffet. Lui si incavolò, urlava. Io gli dicevo di smetterla e alla fine presi un piatto e lo buttai a terra, come per mettere la parola fine alla discussione. Sfortuna volle che alcune schegge di rimbalzo colpirono un altro nostro compagno, Crescenzi, ferendolo alla mano. Il club mi denunciò al Collegio Arbitrale per tentato omicidio. Non scherzo. Dichiararono che quel piatto l’avevo lanciato intenzionalmente addosso al mio compagno. Fu lo stesso Zlamal a scagionarmi in udienza: gli chiesero di mimare il gesto che avevo fatto e lui fece capire che io avevo semplicemente fatto cadere il piatto verso il pavimento, non verso qualcuno. Rimasero sorpresi, mi assolsero. Nel frattempo però io ci rimisi 90.000 euro tra sospensione dello stipendio, multe e spese legali.
Non vorrei che adesso di me passasse l’immagine di uno rancoroso. Io sono sempre stato uno con i piedi per terra, sono grato per quello che ho potuto fare nel mio lavoro, dai tanti campionati di B vinti alle presenze in Europa League. Ne ho viste tante da poterci scrivere un libro, ma ho preso sempre tutto col sorriso, nel bene e nel male.
Adesso faccio il papà a tempo pieno e non ho rimpianti. La mia famiglia è tutto ciò di cui ho bisogno.
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