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Abbiamo perso lo spirito del derby?

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Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Senza umanità, a che servono i riti”?

Confucio

Il derby della Mole oggi più che essere triste pare essere senza un’anima definita, con due club al momento lontani dal ruolo da loro occupato per decenni nel contesto sociale del calcio. John Elkann fa di tutto per non manifestarsi con le stimmate di un Agnelli e Urbano Cairo è difficile da inquadrare finanche come pallido ricordo di un presidente pronto ad interpretare l’anima granata da indiani determinati ad urlare la loro ribellione anche dalla costrizione imposta del recinto della loro riserva. Si è persa l’esperienza di appartenere a qualcosa, e l’eco che giunge dal passato sta diventando sempre più remoto per poter continuare a sostenere le ragioni del presente. “In questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati”, scrive un po’ sconsolato Zygmunt Bauman, facendo una inconsapevole critica anche al calcio, divenuto incapace di interpretare il disagio e l’aspirazione di una massa di persone che fatica a capire quale idea di destino possa rinfrancare per arrivare almeno alla fine del mese. Essere del Toro si è molto liquefatto negli ultimi terribili trent’anni di storia granata, quindi non comprensivi solo della presidenza Cairo, e risulta assai difficile trovare le motivazioni vere della scelta della diversità rispetto ai bianconeri, i quali avvertono come alle porte stia facendo capolino un cambiamento epocale, una possibile dipartita della famiglia più famosa d’Italia dai destini del club più titolato del Paese.

L’aria, dalle parti di Vinovo, è quella di una quiete prima della tempesta, molto somigliante alla “fine della storia” preconizzata da Francis Fukuyama. L’anonimato calcistico scelto da Urbano Cairo come stile, aumenta il senso di una rivolta contro la “forma” rituale della rivalità calcistica di una delle più belle e significative città d’Italia. Non si sta più riuscendo ad intercettare un sentimento sociale, forse manca la Fiat e il suo fare padronale e arrogante, resa monca dalla perdita di un impero e quindi verso la quale non ha più molto senso cercare lo spirito gladiatorio per contrapporsi ad essa. Cairo ed Elkann, per diverse ragioni e interessi, stanno depauperando il patrimonio esistenziale di due squadre, ancora con residue speranze di non crollare grazie alla macchina salvavita dei sentimenti dei tifosi più anziani, quelli che c’erano quando il calcio viaggiava perfettamente sulle rotaie della sua storia emozionale. Qualcuno ha scritto come “la vita era più semplice quando onoravamo il padre e la madre, piuttosto che tutte le principali carte di credito”, e la sensazione malevola di essere, noi tifosi, diventati il prodotto inconsapevole del marketing si fa largo nei giorni più oscuri, quando si fatica a vedere le ragioni per cui “noi siamo contro di loro”. Cosa ci differenzia? Cosa desideriamo, noi, che altri non desiderano? Quale legame  così misterioso ci unisce da risultare incomprensibile agli occhi di chi da questo legame non è unito? Perché andiamo in una curva piuttosto che in un’altra? Come possiamo spiegarlo o raccontarlo a chi nella nostra curva non c’è mai stato? Domande a cui non so se oggi siamo in grado di rispondere compiutamente, visto come si è pecore in mezzo ai lupi ma di fatto non riusciamo più ad individuare i lupi. Sabato alle 18, andando allo stadio o accomodandosi davanti ad uno schermo tv, porremo in essere, ancora una volta, un atto rituale divenuto un simbolo quasi alchemico proveniente da tanto di quel passato da risultare incomprensibile in un presente dove tutto è cambiato senza nessuna spiegazione data, senza che noi tutti si fosse preparati al cambiamento.

Torino non è più la città delle catene di montaggio operaie, non ha più l’orgoglio di essere capofila di un lavoro duro ma necessario al capitalista per costruire i suoi sogni di gloria. Il Toro era il riproporre la sfida anche nel giorno del riposo dedicato al Signore, perché anche quando si riposa, o soprattutto quando si riposa, non ci si dimentichi delle differenze: io sudo in catena di montaggio, tu conti i soldi fatti con tutto il mio sudore. Ma oggi l’automobile è praticamente andata via da Torino, il cui destino è diventato indifferente a John Elkann, e per Urbano Cairo il Toro è una sorta di passatempo da club house del tennis o del golf da gestire con l’oculatezza grama del rigattiere; non c’è più attitudine al sentimento e quindi ciò che un tempo era un rito ora è solo una consuetudine. Quando va alle partite nessun giornalista aspetta John Elkann per carpire le battute in stile Avvocato Agnelli che, un tempo, diventavano subito aforismi celebri riguardo al suo stato d’animo alla fine di una partita. Agnelli e Orfeo Pianelli erano tifosi, magari eccellenti e distanti, perché “padroni”, ma tifosi. Essi incarnavano in modo “alto” ciò che albergava nelle curve, e queste ultime erano rassicurate anche perché loro, i presidenti, vivevano la città.

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà una tua domanda”, ricorda acutamente Italo Calvino, sottolineando, anche qui inconsapevolmente, cosa sia una squadra di calcio, ovvero una risposta ad una domanda. L’amore soddisfa l’ansia di sapere per chi e cosa stiamo facendo le cose, impedisce di smarrirci nel non senso apparente dell’esistenza, dove tutto inizia e finisce senza dare nessuna spiegazione. E’ così che deve andare, racconta la forza violenta della vita verso la quale niente possiamo fare. O almeno così sembrerebbe. Ma un derby di calcio riempie di sole la città, o dovrebbe farlo, diventando quella finestra misteriosa in cui vorresti guardare nella speranza di ritrovarti e di vincere così quella forza maligna della vita che vorrebbe convincerti come tu sia un granello di polvere insignificante il cui destino è morire senza mai essere stato veramente notato da qualcuno. L’amore per una squadra rende la nostra personalità fulgida, l’amore proprio per “quella” squadra racconta anche a chi non ci ha mai “visto” chi siamo realmente. Ma oggi essere del Toro o della Juve cosa realmente vuole dire? Se ci sono sempre meno tifosi del Toro, vuol dire come esso non sia più necessario all’esistenzialismo italiano del nuovo millennio o siamo noi a non saperlo più raccontare, il Toro? Un tempo forse un presidente, alla vigilia di un derby, si sarebbe svenato per confermare Alessandro Buongiorno, consentendogli di avere mari e monti granata, e dando così un segnale ai bambini sul ciglio dell’innamoramento di una squadra cosa sia il Toro, e un buon motivo per essere scelto. Ma proprio alla vigilia di una nuova sfida con la Juve, le notizie sulle future destinazione del più bel prodotto del vivaio granata degli ultimi anni impazzano. La stampa cerca di fissare un prezzo, ribadendo la natura del calcio contemporaneo, ovvero un luogo dove tutto è alla ricerca di una valutazione di vendita. Non è più il valore sociale di una città a contare, non è più la sua esigenza di perpetuare il rito per sperare di avere il mito in cui fondere tutti i nostri piccoli ricordi, ora c’è solo il mercato dove conta monetizzare e dove le vittorie importano non per stratificare i ricordi in eterno ma solamente per monetizzare ancora di più. La tesi è “ciò che non abbiano ancora venduto stiamo per metterlo in vendita”, e quindi più che la storia rimane solo la vittoria e la sua ossessione, e quasi nessuno ormai ricorda come il calcio non sia nato per primeggiare ma per stare insieme nel nome di una idea e di un ricordo della città. La Juventus e il Torino forse oggi sono il pallido ricordo di ciò che sono stati o che avrebbero voluto essere, forse si sono disgregati o sono in via di disgregazione in questo strampalato spirito del tempo, ma noi, comunque, sabato alle ore 18 saremo lì a guardare il derby nella speranza di ritrovare il perduto amore e le perdute speranze. Agogniamo al mito, perché vogliamo assolutamente il ricordo e l’epopea. Ed è giusto così. Vorrei salutare John Elkann e Urbano Cairo, sui quali non nutro nessun buon auspicio, con un ammonimento di Confucio: “non merita la mia considerazione chi, stando in alto, non è magnanimo, chi celebra i riti senza rispetto, chi attende alle cerimonie funebri senza dolore”.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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