Loquor

Berenguer e il punto di vista del toro

Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

“Il toro è voglia di

incornare le stelle”.

Fabrizio Caramagna

Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai”, scrive Ernest Hemingway in una delle memorabili pagine de “Il Vecchio e il Mare”. Forse ricordata da tutti i “Sanfermines” nel momento in cui in un caldo e assolato giorno di luglio si preparano al loro “Encierro”, la tradizionale corsa dei tori verso la “Plaza de  Toros” della città di Pamplona, in cui i “Sanfermines” provano a dimostrare coraggio e a “parlare” al rischio, come fosse quasi un dovere verso la loro famiglia e la loro comunità. Se nasci a Pamplona, se cresci in una terra basca, sai bene come talento e istruzione, seppur benedetti da Dio, non siano niente se per tutta la vita provi a scansare il pericolo, se cerchi il “poco” non per una scelta esistenziale pauperistica, ma solo perché vuoi vedere come va il mondo, piuttosto che viverlo. Ecco spiegato il fastidio provato, dai “Sanfermines”, di un Encierro poco rischioso, inadatto a stabilire quanta vita si sia disposti a concedere all’ignoto. Non è dato sapere se Alex Berenguer, di professione attaccante di qualunque squadra di calcio sia disponibile a dargli fiducia, abbia mai immaginato di correre davanti ai tori in quei giorni di luglio, anche se si può escludere un “Pamploneses” indifferente ai tori e alla corsa di San Firmino, ma il rischio è qualcosa inoculato nell’animo di questo giocatore, nato proprio in un giorno di luglio del 1995.

“El Pollito”(il pulcino) viene al mondo all’ennesima vigilia di un “Encierro”, mancano quattro giorni al 7 di luglio, e i tori già scalpitano nel cortile di Santo Domingo, il “corral” distante poco più di 800 metri dall’arena. Quattro giorni e si troveranno ad essere sfidati da 3000 “corridori” nel curioso “gioco del non morire”, dato che i corridori, anche se ad una visione distratta parrebbe il contrario, non cercano di scappare via dai tori, ma di avvicinarsi il più possibile a loro avendo cura di non toccarli. A “Calle Estafeta”, imbocco finale della corsa, la forza centrifuga nel fare l’ultima curva, fa scartare pericolosamente, e improvvisamente, i tori a sinistra. In quel momento basta un niente, un piccolo errore, un centesimo di secondo di distrazione, per finire incornati. Quando si “vive” sul serio, il confine tra la vita e la morte è tutto lì, in quello scarto a sinistra dei tori. Al ragazzo di Pamplona devono essere venuti su nella mente chissà quante volte quei momenti, nel corso della sua esperienza in Serie A. “In Italia – racconta in un’intervista rilasciata a “El Pais”, subito dopo la vittoria nella SuperCoppa di Spagna contro il Barcellona – impari a giocare il pallone di prima perché hai sempre il fiato sul collo dei difensori”, ed in questa dichiarazione si capisce come l’attuale calciatore dell’Athletic di Bilbao sia intriso di esistenzialismo de l’Encierro.

Nella Liga giocare di prima è un omaggio all’estetica dell’Hidalgo, dove l’onore dovuto al Re, il combattere per lui e la supremazia della Spagna, sono le stelle polari da seguire, fino ad ogni sconfinamento possibile. In Serie A giocare di prima è il capovolgimento della filosofia dell’Hidalgo, e togliersi velocemente di torno l’oppressione del rettangolo di gioco visto come un “Encierro”, un confinamento stringente in cento metri di vita. Senti il fiato del difensore sul collo e avverti il pericolo, e se tu sei un Basco di Pamplona comprendi immediatamente quale sia il punto. Non ti hanno mai fatto correre in un “Encierro”, perché le tue gambe da calciatore molto promettente andavano preservate, ma conosci cosa vuol dire essere confinati. Dal primo secondo in cui respiri l’aria della capitale della Navarra, sfidare ed evitare il toro nella corsa è l’unica cosa a contare, in una curiosa analogia con la storia del calcio italiano. Nell’inverno 2017 Berenguer sta facendo cose egregie all’Osasuna, e il Napoli comincia ad inseguirlo perché lo vede come un efficace alternativa a Josè Maria Callejon, ma nel successivo mercato estivo è il Torino ad aggiudicarsi le prestazioni sportive del ragazzo cresciuto tra le “calle” della capitale della Navarra. Pare una scelta, quella del ragazzo di Pamplona, fatta in omaggio allo spirito della tauromachia, a quel mondo fatto di “Banderillas”, “Picador”, “Muleta”, dipanati in “quite”(spostamenti) tesi alla ricerca della prossimità fatale. Nel momento di aver deciso di lasciare la “comfort zone” dell’Osasuna, dove è nato e cresciuto come calciatore, a Berenguer devono aver raccontato la storia del Torino, che di prossimità fatali ne ha avuti fin troppi dal quel giorno lontano del 1906 in cui vide la luce. Quel toro rampante presente nel logo del club che fu di Valentino Mazzola, non può che essere un richiamo irresistibile per chi ha vissuto nell’eterna “veronica” del torero proteso ad incantare per un’ultima volta il toro, annebbiato dalla fatica e dalla polvere venuta su dall’arena.

 TURIN, ITALY - JANUARY 09: Alejandro Berenguer of Torino FC scores his goal from the penalty spot during the Coppa Italia match between Torino FC and Genoa CFC at Stadio Olimpico Grande Torino on January 9, 2020 in Turin, Italy. (Photo by Valerio Pennicino/Getty Images)

A guardarlo da fuori, quello tra Alex e il Toro di Urbano Cairo ha le fattezze di un matrimonio perfetto, è il “paso doble” tante volte messo in scena per accompagnare le “quadriglie” verso l’inizio della “Corrida”. E’ il movimento armonico binario dell’inizio di una sfida, è sottomissione e attacco. Sì, a Berenguer la storia del Toro deve essere sembrata l’analogia italica di tutto ciò che accade dentro una “Plaza de Toros”, e vestire la sua maglia una clamorosa vertigine. Devono avergli anche raccontato di quel 26 febbraio 2015 in cui i granata violarono il “San Mames”, quel luogo del mondo dove regolarmente poco più di 60.000 baschi si ritrovano ogni volta a gridare in “Euskara”, una lingua in forte contrasto con tutti gli altri idiomi europei, una lingua isolata. Quando Matteo Darmian, al 67esimo, piazza un tiro al volo all’estrema destra  di Iago Herrerin, pare fermarsi tutto nella “Euskal Herria”(terra della lingua basca). Persino i sospiri. I loro giornali gli avevano detto di stare tranquilli, nessuna squadra italiana aveva mai violato la casa dell’Athletic, e non c’era una ragione o ipotesi valida perché i granata fossero i primi a farlo. Ma il calcio è un mistero, e le storie ad animarlo sono i suoi arcani, e quel tiro di Darmian non si infila semplicemente in una rete, quel tiro si proietta nel fondo di una storia che sarà cantata negli anni a venire come la notte in cui il toro si prende la rivincita sul torero e sulle gradinate della “Plaza”, sia su quelle al sole sia su quelle all’ombra. Non ci sono poveri e non ci sono ricchi nel perenne tempo a scadere di una corrida, dove c’è bellezza e infelicità.

Berenguer non ignora come nell’arena il toro possa vincere solo se il torero commette un errore, in genere riconducibile all’orgoglio e alla superbia. “Bada che ti osservo, bada che conosco tutto di te, bada che se abbassi la guardia o mi sottovaluti io ne approfitterò”, raccontano gli occhi del toro nella solitudine dell’arena. Ad Alex Berenguer, quando gli contestualizzano la vita dalle parti dello “Juventus Stadium”, tutto  deve essergli stato improvvisamente chiaro. Il Toro è nato per provare ad inchiodare l’orgoglio e la superbia bianconera, e chi gioca per lui non dovrebbe dimenticarlo nemmeno per un secondo. La squadra granata si trova nell’Encierro con la Juventus, si trova confinata con il torero, dotato dalla sorte di tutti i vantaggi del mondo. “Sono confinato con te e non posso fuggire. Ma, tranquillo, non ho proprio nessuna intenzione di farlo, perché non ho nessuna paura di morire. Non ti darò la soddisfazione di sentire la mia paura. Lunga o corta che sia è la mia vita, non è la mia sopravvivenza”, sussurra nell’orecchio della “Vecchia Signora” un Toro non sostenuto da un “paso doble” ad annunciare un trionfo, ma mai domo.

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“El Pollito” deve essere rimasto impressionato da tutto questo, non poteva certo immaginare come nel calcio potesse esistere una squadra messasi volontariamente dalla parte del punto di vista del toro. E per la prima volta, forse, prova vergogna per non averlo mai capito quel punto di vista. Nei tre anni trascorsi in granata si applica, cerca di imparare, non fa mai una polemica anche quando finisce in panchina, non si intristisce; aspetta il suo momento, e se non sarà nel Toro poco importa. Nel primo mercato calciatori dell’era pandemica, molti si sorprendono della valutazione, 12 milioni di euro, che l’Athletic di Bilbao da di Berenguer; una sorpresa figlia della poca attenzione con cui questi tempi osservano i dettagli. Il ragazzo di Pamplona saluta con educazione e torna a casa, e in poco tempo diventa una delle liete sorprese del campionato spagnolo che sta per concludersi. Tutti si accorgono come non sia più il giocatore partito a suo tempo alla volta dell’Italia, la visione del toro è entrata dentro di lui. Danza ancora sul pallone come un qualsiasi ragazzo spagnolo, ma stavolta ne soppesa il rischio, stavolta non è solo forma, ma anche sostanza. Nel “corral” della salita di Santo Domingo i tori aspettano, tranquilli, il prossimo “Encierro”. Il toro ci osserva, ci valuta… troverà ancora un uomo in noi?

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.