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Cosa ci sarà dopo il Covid-19?

Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "Curare il corpo è facile; curare lo spirito difficilissimo"

Anthony Weatherill

"“Curare il corpo è facile; curare

lo spirito difficilissimo”

Proverbio Cinese

I soldati inglesi di stanza in Islanda aspettavano da un momento all’altro il contrattacco dei tedeschi per la presa di un’isola assolutamente strategica per i destini della Seconda Guerra Mondiale. Il racconto di Mister Bob, mio padre, un giorno mi narrò una delle cose più incredibili ascoltate nella mia vita. Lui e un suo commilitone di Liverpool, erano gli unici due soldati cattolici del battaglione di stanza nella “Terra del Ghiaccio”, ed avevano un altro problema oltre a quello dei tedeschi: volevano andare a messa ogni domenica. E per andarci dovevano prendere una barca e attraversare un pezzo di mare che li avrebbe condotti nell’unica chiesa cattolica dell’isola. In quel pezzo di mare avrebbe potuto accadere di tutto, compreso un’incursione mortale dell’aviazione tedesca. Ma i due commilitoni del nord d’Inghilterra non si fecero fermare da nessun timore, e ottennero dal loro comandante il permesso di assentarsi per recarsi alla funzione domenicale. Era una persona con le sue debolezze, Bob, e gli piaceva il cinema e tutto ciò che poteva essere una conversazione ironica. Era un gaudente come ne ho conosciuti pochi e il Manchester United rappresentava tutto il suo modo di essere mancuniano. Amava la vita, amava Dio, amava la sua famiglia. Ma in quel momento del 1940, Bob aveva ben compreso come nella vita, anche in una situazione di guerra, esistano delle priorità non eludibili. Delle priorità che non devono tenere conto delle nostre paure. Per lui quella priorità, in quel momento, era la funzione eucaristica. Voleva essere mitragliato dall’aviazione tedesca? Certo che no. Era un eroe sconsiderato? Bob aveva i piedi ben piantati per terra, aveva il tipico carattere che fa di un imprenditore, un buon imprenditore: visione e realismo. Ed era fantastico quando ironizzava sul suo aver combattuto praticamente tutta la guerra e su vari fronti, per colpa di Winston Churchill. Ma la responsabilità inclusa nel suo essere cattolico, il credere come qualcosa di misterioso accada sempre durante la funzione eucaristica, lo avevano portato per settimane a rischiare la vita in una barca in mezzo al mare. Il credere in qualcosa viene prima o poi messo a dura prova nella nostra esistenza, dove dobbiamo dimostrare di essere conseguenti alle nostre parole. E la conseguenza di un vero cattolico, la conseguenza della sua fede, non può che ritrovarsi nella messa.

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In quest’Italia surreale da coronavirus, l’eco del campionato di calcio, con tutte le sue gioie e le sue polemiche, sembra allontanarsi sempre di più, e forse stiamo per renderci conto di come il prodotto calcio fosse diventato una droga da consumare. Nessuno parla più di campionati, di mercato, di Var; ci siamo chiusi in casa per paura di morire per l’annegamento dei nostri polmoni, e abbiamo dimenticato in fretta qualsiasi nostra passione. Qualsiasi nostro desiderio. Il calcio non è più nel nostro orizzonte. Come tante altre cose, del resto. Ci aggiriamo per le stanze delle nostre case, senza sapere bene cosa fare, e alla fine ci si ritrova persino a cantare sul balcone. E’ questa la vita? A prima vista sembrerebbe solo un tentativo “nervoso” su cui incanalare le nostre paure. Canta che ti passa. Ma poi dopo il canto restiamo con la nostra solitudine, incapaci di individuare quale sia esattamente la nostra responsabilità del momento.

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Non è un problema da poco, questo, perché quando si combatte una guerra, come si sta facendo contro il Coronavirus, è vitale individuare bene quale siano gli obiettivi. Che non può essere solo quello di avere meno contagi possibili. A volersi soffermare sul calcio, l’obiettivo non può essere semplicemente guariamo tutti e poi riprendiamo le partite. Perché i virus non scompaiono, come non scompaiono i terremoti. E allora, i dirigenti dello sport, a cosa stanno pensando per il dopo? Perché se il virus non scomparirà, non è davvero pensabile fermare il ciclo di tutte le attività umane. Dovremo conviverci, e decidere quale è il punto per noi non negoziabile. Questo impone la responsabilità di ognuno, perché la forza naturale insita nel mondo è quella che dice di andare avanti. Sempre. Sono uscite immagini che fanno vedere diversi giocatori impegnati a tenersi in allenamento tra le mura di casa. Ed è un modo di sancire come il mondo di “prima” non sia scomparso, ma solo temporaneamente necessariamente in letargo. E’ il tentativo di regalare barlumi di umanità perduta.

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In questi giorni si sta assistendo a reazioni esagerate, sia nei fautori che in “in fondo il Covid-19 è solo un’influenza”, sia in coloro che hanno intrapreso la dura crociata del “restare tutti a casa”. Non ci si deve certo suicidare e dobbiamo avere la massima attenzione verso questo virus (io più di altri, essendo in questo periodo sotto chemioterapia), ma forse dovremmo recuperare una certa distanza emotiva ed intellettuale dalla nostra classe dirigente (sportiva e non), per cercare di capire in questi giorni casalinghi quale futuro ci prefiguriamo. Cosa vogliamo dalla politica? Cosa vogliamo dal calcio? Cosa vogliamo da tutte le attività umane? Sono giorni, questi, in cui tante contraddizioni sono venute alla luce, con i muri delle frontiere tornati ad alzarsi alla velocità della luce. Non solo sta apparendo chiaro come l’Europa sia un luogo dove gli stati hanno decisamente interessi divergenti, ma se si pensa alle numerose amichevoli estive fatte dalle squadre in giro per il mondo, vien quasi da pensare che ci si trovasse in un enorme videogioco mondiale. Non c’era sostanza in quel circo, se non l’odore delle banconote.

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Ho sempre avuto pudore di chiedere a mio padre i sentimenti che gli attraversavano l’animo, durante le sue “gite” islandesi in barca, ma oggi una domanda, se l’avessi davanti, la farei ad una dottoressa di origini rumene di una guardia medica a nord di Roma. Qualche sera fa colui che collabora con me in questa rubrica, Carmelo Pennisi, è stato raggiunto da un’ernia iatale dolorosissima, e a notte fonda. Nessuna pillola per calmare il dolore faceva effetto e, ad un certo punto, decide, senza molta convinzione poiché pensava che tutti i medici fossero occupati con il Covid, di chiamare la guardia medica. Sorprendentemente dall’altro lato del telefono trova un angelo dalla parlata italiana incerta, ma che immediatamente si mette a disposizione del problema. La dottoressa, alle tre di notte, si mette in viaggio per raggiungere, dopo trenta chilometri, l’abitazione di Carmelo. Dopo aver visitato a lungo e per bene il mio amico, la dottoressa trova il rimedio giusto per quel dolore indicibile. “Sono venuta – ha detto- perché avevo timore che potesse esserci qualche problema al cuore. Non si poteva rischiare. Ecco perché non l’ho mandata al pronto soccorso di un ospedale”, e mentre scrivo queste parole l’emozione pare sopraffarmi. Anche perché, uscendo di casa per accompagnarla all’automobile, Carmelo ancora una volta si è reso conto di che reale sostanza possono essere fatte le persone. L’automobile della dottoressa era una vecchia ypsilon 10, con uno dei due fari fulminati e una portiera che si apriva a stento. “Quella donna – mi ha detto Carmelo – stava per farsi alle tre di notte altri trenta chilometri in quelle condizioni. E questo solo per curare me, per sincerarsi che stessi bene. Sono entrato in casa e mi sono lasciato andare ad un pianto di commozione”. Questo aneddoto mi ha improvvisamente ricordato mio padre e la sua barca, e le lacrime di Carmelo le vorrei dedicare a quella ragazza con cui ho polemizzato in un video pochi giorni fa. Cara ragazza, gli uomini sono fatti di responsabilità e di progetti, e oggi tutto il personale sanitario sta lottando senza sosta per difenderci dal dolore. È per loro, per il loro immane sacrificio, che dobbiamo, anche chiusi tra quattro mura, pensare a progettare il mondo di domani. Anche nel calcio (davvero non si vuole provare a rimettere in discussione qualcosa del meccanismo infernali del calcio?). E se avessi davanti la dottoressa rumena, non potendo abbracciarla, le farei un lungo inchino. Augurandole la possibilità di avere prima o poi un’automobile nuova. L’umanità va avanti. Coraggio. Torniamo a credere sul serio alle nostre idee. Questo è il nostro tempo, e non ce ne sarà uno migliore.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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