Loquor

L’addio di un calciatore

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Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Loquor", a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

“Escogiteremo il modo

di nascere da un’idea”.

Fedor Dostoevskij

“Per un po’ forse continuerò a urlare il tuo nome a me stesso, nel cuore. Ma alla fine la ferita si cicatrizzerà”, scrive David Grossman a proposito della morte in battaglia di suo figlio Uri, dilaniato da un razzo anticarro nel corso della guerra condotta dagli Israeliani in Libano nel 2006 contro “Hezbollah”. Uno dei più importanti scrittori  israeliani contemporanei è convinto come la morte di un figlio, probabilmente il più temibile dolore tra i dolori ipotizzabili sulla Terra, alla fine troverà una ragione, un posto nei ricordi dove una cicatrice ricorderà il tempo trascorso e renderà il dolore della perdita accettabile. Grossman ci dice come alla fine ogni dolore debba necessariamente trovare una sua quiete, premessa necessaria per permettere alla vita di andare avanti. Ma trovare la quiete non significa non provare ad interrogarci ogni giorno sui motivi delle tempeste incombenti su di noi a cicli regolari, per cercare di non far finire le nostre ferite esclusivamente nel tunnel di un grido di dolore.

Un giocatore di calcio andato via dalla nostra maglia del cuore, e parlo di quel giocatore a cui speravamo di affidare pezzi del nostro desiderio e delle nostre speranze, è l’inizio di una tempesta a catapultarti nel centro del mirino dell’aspetto maligno della vita. L’apprendere la notizia è già una frustata su ogni ferita apertasi ogni qual volta una speranza è andata delusa o, peggio, persa per sempre. “L’anno prossimo non, lo troverò più in quella zona di campo di cui ne aveva fatto un giardino” è la prima manifestazione di resa a precedere il momento di rabbia verso colui, il giocatore scappato via nottetempo, capace di tradire per vil denaro o sordida ambizione una delle poche certezze di una vita oramai diventata troppo precaria per essere accettata come “bella” alla stessa stregua del Roberto Benigni “bagnato” dalla polvere di stelle di un Oscar.

La sensazione è quella di sopravvivere tra un attacco e un altro, e non stiamo affatto “Tutti Bene” come nel noto film di Giuseppe Tornatore. Non stiamo bene per niente. Si avvicina il mercato calciatori e le sirene delle autoambulanze (i titoli dei giornali sportivi) speri proprio non riguardino i beniamini a cui sei più legato. Aspiri a non vedere un manifesto del caro estinto (l’annuncio della cessione) con il nome del tuo eroe con gli scarpini stampato sopra. Ma poi quel giorno arriva, quello dove l’esistenza ricorda in modo crudele come niente sia per sempre, e “puff”, ecco la prima notizia della cessione del protagonista a te caro fare capolino sull’inizio della tua giornata, prodromo di quanto si appresti ad essere disgraziata: “Josip Brekalo ha deciso di non proseguire la sua carriera al Torino”.

Il calo di zuccheri è immediato, la depressione sempre latente ti invade, tutto intorno diventa vertigine e la testa sembra essere diventata, nello stesso tempo, pesante e vuota. Forsennatamente cominci a telefonare a tutti i tuoi fratelli in tifo per sapere se stanno tutti bene: stanno tutti male e si apprestano ad essere incazzati. Non ci vuole molto perché tutti si diventi come uno dei protagonisti di “Memorie del Sottosuolo” di Fedor Dostoevskij: “ sono un uomo malato… sono un uomo cattivo. Credo di avere mal di fegato… il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancora più male!”. Il calcio a volte è come un vulcano in attesa di eruttare i suoi eccessi, sotto forma di una lava assolutamente desiderosa di distruggere qualsiasi cosa al suo passaggio.

È una lava pronta ad essere furia, e a cui non frega più un accidente di preoccuparsi di un qualsiasi contenimento. Dal tuo orizzonte postato nel futuro hanno improvvisamente tolto proprio quell’elemento che cominciava a far temere gli avversari come anche dalle tue parti ci fosse uno pronto a “scartare” la fissità della tattica, perché dotato di quella classe nata per far saltare ogni tipo di schema. E’ l’archetipo a far pensare finalmente al concetto di supremazia, pronto a ridare lustro ad una maglia diventata fin troppo sgualcita e scolorita. E allora, preso definitivamente atto come Brekalo ti abbia lasciato, non puoi non abbandonarti all’invettiva contro il tuo Presidente, reo di aver reso l’incubo possibile.

“Proprio nulla sei diventato: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto”; ecco, le parole di Dostoevskij descrivono bene quanto risentimento in questo momento provi contro Urbano Cairo, ed è perfettamente inutile cominciare a spiattellare articoli consolatori del tipo “Brekalo non è Maradona”, visto come questa cosa tu la sappia già. La dicotomia, a tratti disperata, è quella di vivere la tua sofferenza nel presente, ma con il cuore e la mente rimasti ancorati alla prospettiva calcistica del ventesimo secolo, quel lasso di tempo iniziato con la “Belle Epoque” in pieno svolgimento, allora promessa di un totale miglioramento della vita quotidiana, grazie anche a delle scoperte tecnologiche avvenute alla fine dell’800 nella comunicazione (l’invenzione del telefono) e nella mobilità (la realizzazione del motore a scoppio), improvvisamente capaci di annullare facilmente e velocemente qualsiasi distanza.

Il calcio si evolve e diventa di “massa” perché può “raggiungersi”, mettendo in scena la rappresentazione di “socialità” a confronto. La “Belle Epoque” segna la nascita del “tempo libero”, scavalcando per la prima volta, nelle classi proletarie, il concetto di “time out” dal lavoro esclusivamente come un’occasione di riposo. Il ventesimo secolo è quel tempo in cui le persone non sono più il mestiere prodotto, ma anche il motivo attraverso il quale impiegano lo svago. Il motivo principale del successo del calcio è racchiuso tutto in questo e attraversa  l’intero 900 come fenomeno esistenziale e non economico. La maggior parte di noi tifosi è ferma con la testa ancora lì, a quegli stilemi dal carattere popolare dove un presidente di un club era chiaro fosse pro tempore, perché era il “ricco” impegnato a restituire qualcosa della sua fortuna alla comunità calcistica di riferimento. Nessuno, nel 900 europeo, si sarebbe mai sognato di utilizzare il sostantivo “azienda” per definire una squadra di calcio, perché nessun “time out” poteva riportare la mente delle genti europee nuovamente sul proprio posto di lavoro. Lo spostamento dei calciatori da un club o ad un altro non era quel fenomeno finanziario diventato oggi e riguardava una fetta minoritaria di essi. La maggior parte dei giocatori divenivano parte della comunità, e non era così facile da parte loro abbandonarla.

Ma oggi, per la gioia di molti di cui sospetto non ne comprendano appieno il significato, il teorema di fare “impresa” si è incuneato alla stessa stregua di un malefico “bug” negli ingranaggi 2.0 dello sport più seguito al mondo. Ha certamente avuto ragione la “Sentenza Bosman” a sancire la cessazione del concetto di “merce” sulla figura del calciatore, ma si è stati alquanto disattenti su alcune conseguenze di cui è foriero il “Diritto”, erroneamente confuso come fatto statico piuttosto che come strumento di mobilità, sua vera reale natura. Ciò ha procurato la mutazione della natura oggettiva del calciatore, tramutatesi da “merce” a “strumento di marketing”, con la necessità di monetizzarsi ad ogni costo. E una cosa deve essere chiara: siamo tutti, a vario titolo e con varie gradazioni di responsabilità, complici di tale mutazione. Non si cada nella più frequente delle tentazioni umane, ovvero quello della pratica dell’autoassoluzione. A ciò detto, ne discende la necessità del calciatore di provare a trasmigrare verso lidi dove lo “spacchettamento” del suo essere marketing in varie occasioni di monetizzazione sia obiettivo inderogabile.

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Servono le coppe europee, servono le città in evoluzione economica, servono club strutturati per attirare eventi e, quindi, soldi. Il “calcio altro” 2.0 richiede contesti al quale l’attuale situazione del Torino non può accedere, ed è questo a generare rabbia tra i suoi tifosi: trattasi della sgradevole sensazione di impotenza. L’addio di Josip Brekalo non è la perdita di Maradona, è l’umiliazione derivata dalla consapevolezza di non poter attualmente avere accesso al teatro messo in piedi dalla finanza e dal marketing, con l’evidente complicità della tv. Questo scenario dovrebbe convincere in modo inequivoco Urbano Cairo, oggettivamente uomo sia d’impresa che di marketing, come il suo tempo al Toro sia concluso. La vicenda Brekalo inchioda l’editore alessandrino al senso di “finito” (e non ad un improponibile “infinito”), a cui tutte le persone sono soggette dall’inizio dei tempi: è tempo di passare la palla ad altri. E’ il momento in cui si faccia avanti qualcuno capace di far nascere una nuova idea per non ridurre il tempo solo ad un’occasione di malinconia, ma ad un’opportunità futura. In fondo, sarebbe semplice capirlo, lo “schiaffo” di Brekalo sta tutto qui.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

 

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