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Wimbledon e il calcio

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Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Loquor", a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

La fiaba dei millenni

chiamata storia”.

Gianni Brera

Ho avuto la fortuna di avere un qualche grado di amicizia con Gianni Clerici, indimenticabile cantore del tennis mondiale e nostrano, tanto da aver avuto il privilegio di una sua presenza ad un mio spettacolo teatrale in scena a Milano (Clerici amava tantissimo il teatro, e ne era fine intenditore), seguito da una piacevolissima cena in cui, ovviamente, non si poteva non finire a parlare di tennis. Non era uno ancorato al “c’era una volta ed era meglio”, ma in quella cena questo scrittore e poeta prestato al giornalismo era partito dalla sua ammirazione per Roger Federer, per giungere ad apparecchiare intellettualmente una venerazione per il torneo di Wimbledon, evento/icona non solo della storia del tennis ma della forza tenace di quella parte del mondo dello sport teso a cercare di non perdere memoria delle sue origini. Seguivo l’aneddotica e il fluire verbale di Clerici con reverenza e stupore di potervi assistere a meno di un metro di distanza, e in quel fluire riconoscevo tutti i motivi per cui ho amato, sin da bambino, il gioco del tennis e tutti i suoi conseguenti riti. Nel silenzio affollato delle gradinate di un qualsiasi “court”, i gemiti del pubblico non sono minimamente paragonabili al tifo da stadio o da palazzo dello sport, perché il tifo nello sport “dai guanti bianchi” è qualcosa di praticamente inesistente come fenomeno, sostituto da qualcosa riconducibile all’ ammirazione. Chi ama davvero questo sport, a volte “vandalizzato” da chi prova a trasportare gli stilemi del tifo

calcistico tra un 15 e l’altro, pospone tutto all’incanto di vedere una traiettoria che è forza, ingegno, ricerca della perfezione e desiderio di armonia. E l’applauso, alla fine, è per tutti e due i contendenti.

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Perché, come ebbe a dire una volta Federer, la stretta di mano alla fine di ogni match, è la sintesi del “bella partita, ho apprezzato che mi abbia fatto giocare bene. Grazie a te ho potuto esprimermi al meglio”. Wimbledon è uno dei simboli visibili dell’immortalità del mondo, è il riproporre le “Colonne d’Ercole” erte a limite della conoscenza. Oltre quel limite non c’è più niente da scoprire, ma semplicemente la cristallizzazione di un momento introiettato nell’eterno. Vedi i vincitori del torneo sfilare sul Centrale per festeggiare i suoi cento anni e tutta la storia riappare come per magia, e i capelli bianchi di Bjorn Borg sono certamente una illusione ottica, perché tu lo ricordi ancora in ginocchio su quel prato, con la racchetta di legno finita per terra, con le mani a coprire il volto stravolto dall’emozione di aver appena sferrato il colpo decisivo che ti ha consegnato alla leggenda. Il tuo completo da tennis, seppur firmato da un importante sponsor tecnico, deve essere bianco immacolato, e questa regola non è passibile di nessuna deroga, il mondo gravitante attorno “Church Road” non diventerà mai un caleidoscopio dove scrutare ossessivamente degli oggetti colorati alla rinfusa. Il pianeta “All England Lawn Tennis and Croquet Club” ha dei munifici sponsor, ma a costoro non è mai stato permesso di diventare padroni della storia e della leggenda. Qualcuno della “Royal Family” starà sempre lì, seduto nel palco a loro riservato, a controllare come il tempo “scorra” ma non “cancelli”; siamo nell’Inghilterra di William Shakespeare dove nessuno, ma proprio nessuno, dimentica le immortali parole con cui “Il Bardo” racchiude l’uomo nella stessa materia in cui sono fatti i sogni. Osservi i giocatori entrare in campo all’appuntamento con il destino sognato da ogni tennista, e sai che qualsiasi tempesta li aspetti niente potrà mai distruggere i semi lasciati sul prato verde dalla loro voglia non di stupire, ma di stupirsi.

Wimbledon è il “momento opportuno” aspirato da chi impugna la racchetta la prima volta immaginandosi un giorno nel centro del magico silenzio in cui solo un respiro è rumore. Non siamo mai stati molto fortunati noi italiani in quel giardino dei sogni, abbiamo dovuto attendere più di un secolo per vedere un nostro connazionale finalmente giocarsi una finale sul campo centrale più famoso del mondo. Matteo Berrettini è certamente un campione ma non è un fuoriclasse, e la finale con Novak Djokovic lo scorso anno è sembrata più una gita premio per uno scolaro volenteroso, che una vera battaglia per incidere il nome sul muro sacro dei vincitori. Poco male, a noi italiani la cosa ha comunque emozionato molto e Matteo avrà qualcosa da raccontare quando sarà vecchio a nipoti e pronipoti: “un giorno mi sono giocato i Championships, e Re William di Windsor, all’epoca ancora Duca di Cambridge, era lì a guardarmi e ad applaudirmi”. L’ebbrezza di questo torneo ha il potere di purificare tutte le tossine procurate da un

Paese, l’Italia, ancora di più esageratamente “calcio centrico” nel periodo dell’anno in cui l’unica cosa a distrarre dal caldo afoso è l’assurdo mercato calciatori, una espressione di volgarità intellettuale talmente grossolana da farti quasi pentire riguardo al momento in cui hai scelto una squadra del cuore e ne hai deciso di seguire quotidianamente le sorti. Il calcio riesce ad essere un delirio così subliminale, da essere vissuto a volte come una droga foriera di pesanti e confusionari risvegli. Sempre pronto ad inquietarti, è capace di incupirti come non mai nelle giornate in cui

tutto è andato talmente storto da andare storto anche il pallone. Il calcio è vita vera, con le sue schifezze, le sue parodie, le sue magnifiche sorprese; tutto in esso è sporadico, tranne la sofferenza, vera compagna di ogni tipo di esistenza.

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Nasciamo sostanzialmente per capire quanto saremo abili ad affrontarla. Intervallata da ritorni di gioia incontentabili, la sofferenza è lo stato d’animo giusto a costringere ogni volta a ritornare a vedere quei novanta minuti in cui ci si convincerà di vedere un gioco, mentre in realtà si sta scrutando la vita. La nostra e quella degli altri. Nel calcio aggirare la Legge( la Regola) è uno scopo tra gli scopi, e capita di confondere con la “mano di Dio” un fallo di mano con cui si realizza un gol storico, e scriverci pagine di letteratura e addirittura un film candidato nella cinquina di un “Premio Oscar”. Il calcio è la continua occasione anarchica di “Lucifero” in aperta ribellione contro Dio, è un precipitare fragorosamente dal Cielo sulla Terra in attesa di un ritorno verso l’alto ancora possibile e sperato. Ma quanto tormento prima di tale possibile avvenimento. Gianni Brera, che di Gianni Clerici fu amico vero e ammiratore, sosteneva come nel calcio coesistessero il magico e il perverso, capace di “elevarsi di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra”. Il calcio, nella visione “breriana”, può essere vissuto alla stessa stregua dei bevitori di vino: puoi assumerlo come un vizio che condanna, o piuttosto come una poesia incline verso la preghiera. Brera e Clerici, i due grandi “Gianni” del giornalismo sportivo italiano, con i loro racconti, pieni di neologismi e spunti verbali, ci hanno fatto vivere da vicino le pieghe di due sport lontanissimi tra loro, per filosofia e intento. Uno, il calcio, abbonda di peccato, l’altro, il tennis, sovrabbonda di grazia, e spero mi si perdoni l’ostentato riferimento alla “Lettera ai Romani” di Paolo di Tarso. Brera non ha mai compreso, né tantomeno accettato, un fenomeno come Bjorn Borg (“egli maneggiava la racchetta come avrei potuto io la roncola”), Clerici era talmente distante dal calcio da non sembrare nemmeno italiano (“nel calcio

c’erano gli ultras, decisi di scrivere di tennis per difendermi dalla vita seria”).

Uno dei motivi per cui Clerici ha amato il tennis è il suo essere lo sport meno “nazionalista” di tutti, uno dei motivi per cui Brera ha amato il calcio è proprio la sua eterna ricerca della faziosità e il suo perdersi nei particolarismi dal sapore etnico. Cercando di fare una mia personale sintesi, finirò la settimana in corso a godermi Wimbledon con le sue fragole alla panna, con i “dress code” bianco immacolato, con la dichiarazione finale del vincitore commosso nel ricordare come sia proprio quel momento che ha sognato mentre prendeva in mano la prima racchetta, con il pubblico ad applaudire tutti in attesa di ritrovarsi di nuovo nel rito l’anno seguente, con i raccattapalle a vivere il loro momento di gloria quando il rappresentate della nobiltà inglese rivolge loro per un attimo la parola prima di andare a premiare il vincitore, con la certezza di essere stati per due settimane dentro un sogno simile al film “Brigadoon” di Vincente Minnelli. Ci vuole questo “stacco” ogni anno. Ti ripulisci e sei pronto per ritornare nell’inferno dello sport più seguito al mondo. E’ la vita che scorre, e che ci sia ancora vita è la notizia più bella ad attenderci ad ogni risveglio.

Ave Caesar, morituri te salutant”.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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