Culto

Primi nel mondo – La saga completa

Francesco Bugnone

Come si sta sulla Luna? Camminare a sei metri da terra è stupendo, così come per allenatore e calciatori dev’essere bello prendersi le dovute rivincite per le critiche eccessive di certa stampa che, sempre pronta a correre in soccorso al vincitore, adesso intinge la penna nel miele cambiando a trecentosessanta gradi i giudizi su alcuni. Il clima è così euforico che addirittura si dice che Borsano non dovrà vendere nessun pezzo pregiato visti i soldi incassati tra biglietti, diritti televisivi e accesso alla finale. Potrebbe rimanere anche Lentini, addirittura. Ci godiamo ancora un po’ col quel clima. La finale con l’Ajax di Bergkamp, giustiziere del Genoa in semifinale, può aspettare ancora un attimo.

Anche la Samp è sulla Luna come noi: ha appena conquistato la finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona a Wembley. E, proprio come noi, piangerà lacrime amare e persino nel loro dolore ci sarà parecchia Olanda. Nel sabato di Pasqua in cui ci affrontiamo siamo ancora tutti immersi nel sogno. Apre Casagrande con una gran zuccata su corner di Scifo, pareggia Katanec approfittando di uno dei pochi balbettii stagionali della difesa. Nella ripresa Martin Vazquez, servito da Vieri, si prepara la conclusione in maniera magnifica, ma alza troppo la mira da pochi passi. Proverà subito a rifarsi con una cannonata respinta in qualche modo da Pagliuca. La partita, di fatto, finisce lì e dei restanti minuti si ricorda solo Bruno che, felice per aver annullato Mancini dopo Butragueno, esulta quando il tabellone comunica il provvisorio vantaggio della Roma sulla Juventus. Le uniche preoccupazione sono per un infortunio ad Annoni, ma Tarzan rassicura: “Con l’Ajax anche su una gamba sola”.

Dopo Pasquetta, la parola Ajax si trasforma in quattro lettere che penetrano la testa di tutti: del Mister che vola a vederli in Olanda, dei tifosi che fanno code interminabili per i biglietti, dei giocatori che, stravolti dalle fatiche, cercano di racimolare le ultime energie per l’appuntamento con la storia. L’ultimo impegno prima della finale d’andata è contro il Milan a cui manca solo la matematica per festeggiare uno scudetto vinto dalla prima giornata. Si gioca di sabato in anticipo e il pareggio annunciato è, almeno, ricco di gol. Mentre Mondonico spiega a Scifo, in panchina, i movimenti che dovrà fare in finale mostrandogli Fusi come esempio, sul campo a sbloccare il risultato è un capolavoro di Casagrande che scavalca Antonioli in uscita con un incredibile pallonetto di tacco su lancio di Martin Vazquez. Massaro pareggia dopo una respinta di Marchegiani, poi, nel secondo tempo, una botta di Rafa, deviata da Ancelotti, ci regala un nuovo vantaggio impattato da Fuser al 70’. Negli spogliatoi tutti dicono di sperare che non finisca 2-2 anche mercoledì. Le ultime parole famose.

La sera della finale d’andata è una storia diversa dalla semifinale col Real dove eravamo sicuri di sbranarli. Saranno le squalifiche di Fusi e Policano, sarà il piccolo svantaggio di non poter giocare tra le mura amiche il ritorno, sarà la paura di aver osato troppo, la mente esausta per avere giocato quella partita nella testa per quindici giorni consecutivi, ma non siamo i soliti. Lo stesso striscione che campeggia in Maratona (“La lunga attesa per un traguardo importante, renderà la nostra gioia ancora più grande. E’ il nostro momento! Forza ragazzi fateci godere!”)  è bello, ma non è immediato e memorabile come “Da Madrid a Licata fieri di essere granata”, degno dell’immortalità. E’ come se nell’aria ci fosse qualcosa che ci dice che non girerà bene.

Il primo tiro è granata (botta di Venturin, respinta di Menzo), ma quello che conta arriva al 14’ ed è maledetto Sulla botta maligna di Jonk si sono spesi fiumi di parole: che fosse colpa di Marchegiani, che se ci fosse stato Fusi non avremmo mai preso quel gol, che ci fosse un fallo a inizio azione. La gelida realtà è che l’Ajax si trova avanti a casa nostra e la gioia di Jonk in uno stadio ammutolito è una coltellata.

Bergkamp è difficilissimo da prendere e offre a Winter il pallone per distruggere tutti i nostri sogni, ma il colpo di testa del futuro laziale arriva fra le braccia di Marchegiani. Lì qualcosa cambia. Dobbiamo ritrovare un vecchio amico per riprenderla e così alla bravura olandese opponiamo il cuore granata. Cravero diventa centrocampista aggiunto e il Toro chiude il tempo con cattiveria: Scifo, Casagrande e Lentini hanno occasioni create di pura rabbia, ma la fortuna non ci sorride. Il meritato pareggio arriva al 62’: Scifo carica il destro dal limite, Menzo, ingannato da un rimbalzo, respinge in maniera rivedibile e Casagrande spara in rete un pallone che scioglie la nostra frustrazione. Lo stadio, finalmente, ruggisce.

A un quarto d’ora dalla fine, però, Bergkamp passa tra Annoni e Benedetti che lo tocca poco dentro l’area. E’ calcio di rigore e Pettersson spiazza Marchegiani: il 2-1 per loro vorrebbe dire la coppa in mano con 90’ d’anticipo. Non ci stiamo e tiriamo ancora fuori la forza per pareggiare con un opera d’arte di Casagrande su passaggio magnifico di Lentini. Bisogna ancora capire come abbia fatto a mandare completamente a vuoto Blind con due tocchi felpati, ma c’è riuscito e, una volta davanti a Menzo, lo scavalca con un tocco delizioso. 6’ al termine, decidiamo di non sbilanciarci per non imitare l’errore fatto da Genoa nell’andata della semifinale una volta raggiunto il 2-2, ma continuiamo ad attaccare e Bresciani, saltando un avversario con un numero d’altissima scuola, ha il pallone per “trasformare la via crucis in vittoria”, tanto per citare le parole di Marco Cassardo in “Belli e dannati”. Il nostro Buitre, però, non riesce a dare un’adeguata forza al pallone e Menzo para a terra.  Forse c’era Casagrande meglio piazzato al centro, ma un attaccante, da lì, tira a maggior ragione se vuole regalare un sogno a se stesso e a un popolo. Finisce 2-2, la delusione è grande, ma una vocina di speranza, al momento sepolta dal vaso di Pandora di amarezza che è esploso al fischio finale Worral, dice che siamo ancora vivi, che dobbiamo fare l’ennesima impresa. Bisogna vincere ad Amsterdam.

La strada che porta a Madrid è attraversata anche dalla Nazionale. Il 25 marzo, infatti, gli azzurri di Sacchi giocano al “Delle Alpi” contro la Germania una non memorabile amichevole con le due curve che più che tifare per gli azzurri pensano all’imminente derby e se le cantano a distanza. Risolve Baggio su rigore procurato da Lentini, entrato a gara in corso con ottimi risultati, sul quale le voci di mercato sono ormai fuori controllo.

Anticipiamo di un giorno la sfida in campionato contro l’Inter di Suarez proprio in vista del nostro appuntamento con la storia, ma a Milano si presenta un Toro lungi dall’essere distratto. Le cose si mettono in salita quando al 40’ un’uscita di pugno di Marchegiani, valutata fuori area da Stafoggia, viene punita col cartellino rosso. Luca salterà il derby e in campo entra Raffaele Di Fusco.

Raffaele Di Fusco, storico dodicesimo del Napoli, è principalmente noto per essere stato schierato centravanti da Ottavio Bianchi nel finale di una partita contro l’Ascoli nel 1988/89. Episodio che si prestò a interpretazioni plurime, in primis il rapporto ormai al capolinea fra tecnico e alcuni giocatori. A Torino ha sempre atteso il suo momento con professionalità coprendo le spalle all’inamovibile Marchegiani e il fato l’ha premiato con l’esordio dal 1’ nella stracittadina accolto da un “Per me Juve o Ascoli pari sono” che fa capire come la porta potesse essere in buone mani anche senza Luca (spoiler: lo sarà).

Nella ripresa rischiamo per un palo di Dino Baggio, ma non sembriamo tutto fuorché in dieci. Lentini è scatenato e solo un intervento falloso di Brehme in area riesce a fermarlo, anche se l’arbitro non concede incredibilmente il rigore, come farà, poco dopo, per un contatto meno netto tra Mussi e Klinsmann. Gigi è inarrestabile e Abate, sostituto di Zenga squalificato, lo deve atterrare fuori area guadagnando la seconda espulsione di giornata per un portiere. Il primavera Cecotti viene impegnato da tutte le posizioni da Policano e compagni, ma la partita non si schioda dallo 0-0 complice una rete misteriosamente annullata a Scifo nel finale. Non c’è tempo per recriminare, si vola a Madrid.

“Al Bernabeu novanta minuti possono essere molto lunghi”, così diceva Juanito, centrocampista del Real anni ottanta che, per un tragico scherzo del destino, morirà in un incidente stradale al termine della partita. Ne sanno qualcosa molte squadre, vittime, nel decennio precedente, di incredibili rimonte dopo aver creduto di essersi assicurate il passaggio del turno dopo un’andata vittoriosa con discreto margine. Ne sa qualcosa soprattutto l’Inter della prima parte degli anni ottanta che si è vista spesso beffata in modi leciti e meno, come quando Bergomi venne colpito in testa da una biglia proveniente dagli spalti senza che l’Uefa intervenisse per concedere il successo a tavolino. Ne sapremo qualcosa anche noi, ma ci faremo trovare prontissimi.

Novanta minuti sono lunghi e a volte cominciano prima. Tutte le trappole preparate dal Real (lo sminuirci, il parlare di noi come squadra che distrugge il gioco) non fanno che caricarci. Il lancio di oggetti sul pullman che sta raggiungendo lo stadio, con tanto di vetro rotto e Parretti ferito, non fa certo piacere, ma non ci intimidisce tanto che, durante il riscaldamento, Bruno e Policano rispondono per le rime al pubblico che fischiava e insultava. I tifosi granata, invece, sono stati confinati in un’oscena “gabbia” e caricati dalla Guardia Civil. “Lì in mezzo c’è mia figlia, se le capita qualcosa non presentarti a Torino” sibila Mondonico in faccia al presidente madridista Mendoza e, per sua fortuna, all’amata Clara non accadrà nulla. Nonostante la prosopopea ostentata dalla dirigenza, dallo spocchioso tecnico Beenhakker e da Ricardo Rocha, difensore esagitato che finirà con l’essere involontario alleato al ritorno, fra i “blancos”, sotto sotto, inizia a insinuarsi il dubbio di avere scherzato con quelli sbagliati.

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L’austriaco Forstinger fischia l’inizio e la partita è tanto calda quanto equilibrata. Martin Vazquez sembra non sentite i fischi del suo ex pubblico, Scifo resiste alle botte di Milla, Ricardo Rocha va a urlare in faccia qualcosa a Policano pensando di intimidirlo e si prende in risposta una risata in faccia e il gesto “questo è matto” da parte del nostro numero undici. Col passare dei minuti troviamo convinzione a al 59’ arriva un momento di gioia unica.

Lentini apre a Scifo che allarga a sinistra per Policano, in posizione ottima per il cross. Ma Roberto non vuole crossare, da come si coordina dopo il controllo si capisce che, come contro il Foggia in campionato, sta per tirare. E’ una rasoiata rasoterra, carica di effetto, fatta apposta per regalare una brutta figura ai portieri. Buyo è costretto a tuffarsi all’indietro per togliere il pallone dalla porta in un modo che non può che essere goffo. La palla resta lì, nei pressi della linea. Casagrande la tocca segnando un gol tanto facile quando immortale e poi inizia a correre urlando, inseguito da Mussi. Il Toro, splendidamente tutto granata, è passato in vantaggio al Santiago Bernabeu.

Mai stuzzicare il can che dorme, però, e il Real si sveglia. Hierro approfitta di un mancato intervento di scivolata per un filtrante a mettere Hagi davanti a Marchegiani: pareggio dopo 3’. E’ ancora Hierro, vero fuoriclasse di quel Real, a punirci al 65’, quando siamo poco attenti su uno schema da calcio piazzato consentendogli un facile colpo di testa. Partita ribaltata, ma il Toro sa adeguarsi. Non siamo riusciti a tenere il vantaggio, non dobbiamo imbarcare dato che c’è sempre un ritorno. La partita si fa gazzarra: un fallaccio di Hagi ferisce al ginocchio Cravero che deve lasciare il campo urlando, roba da rimetterci la carriera. Ci saltano i nervi per un attimo e Policano ci lascia in dieci dopo un intervento duro su Michel. In inferiorità numerica non solo non rischiamo più niente, ma è Buyo che evita il 2-2 con un miracolo sulla conclusione volante di Lentini. Finisce 2-1, ottime prospettive per il ritorno, ma anche coglioni giustamente fumanti.

Al termine della gara Mondo e i suoi parlano più dello squallido trattamento subito fuori dal campo che della partita e, quando lo fanno, pongono l’attenzione su come si sia tenuto, sull’atteggiamento e sul fatto che, coi dovuti accorgimenti, sia tutto ribaltabile sotto la Maratona. Di alcune esperienze si dice “sono entrato bambino, sono uscito uomo”. Quella sera il Toro, che uomo era già da parecchio, è entrato ottima squadra ed è uscito Grande. Sì, Grande, come quelle che si contendono coppe e scudetti e da lì a fine stagione giocheremo sempre come una grande squadra. Peccato che durerà troppo poco.

Il magone, nei giorni successivi, fatica a diradarsi, soprattutto nell’animo dei tifosi. Dopo la delusione a caldo, la squadra sembra riprendersi prima di noi. Mondonico ribadisce che alla fin fine il Toro, pur meno elegante in fase di palleggio dei biancorossi, abbia creato molto di più di loro, i quali, dati alla mano, hanno segnato con un tiro da lontano e con un rigore. Bruno si dice pronto a puntare un milione sulla nostra vittoria, Scifo parla di una difesa avversaria perforabile, Casagrande parla dell’importanza di segnare per primi ad Amsterdam. I taccuini annotano le dichiarazioni tornando a essere ironici, ma non troppo, metti mai che questi facciano davvero il miracolo. Torna il campionato e a Firenze il Toro strappa un pareggio con pochi sussulti, come una traversa su tiro deviato di Annoni o un paio di buoni interventi Marchegiani, e ancora sfortuna, visto che Mussi si infortuna al 57’ quando avevamo già esaurito i cambi, rimanendo in dieci.

I giorni passano e l’umore cambia. Prima timidamente e poi, in maniera sempre più decisa. Ci scuotiamo dalla delusione e iniziamo a essere possibilisti poi sempre più convinti di fare l’impresa, sognando a occhi aperti le mani di capitan Cravero ad alzare la coppa. Nell’anticipo del sabato contro il Genoa che, dopo la semifinale persa, è in caduta libera, è l’apoteosi.  Un tifo allegro e determinato, felice di andarsi a giocare la coppa in Olanda, “ce ne andiamo ad Amsterdam” cantato a ogni piè sospinto, senza paura e con tanta voglia di futuro quando lo speaker legge le formazioni e pronuncia il nome di Pato Aguilera, il nostro primo colpo per l’anno successivo, accolto con un “olè".

Le marcature le apre Bresciani che, pescato in area da Lentini, torna glaciale come nella stagione precedente per buttarla alle spalle di Berti. E’ nella ripresa che si dilaga e il raddoppio è un gran pezzo di tecnica di Vincenzino Scifo su calcio di punizione con palla che aggira la barriera ed è imprendibile per il portiere. L’esultanza è rabbiosa, tanto per cambiare c’è un po’ di rancore da sfogare visto che lo sport della stampa locale è rompere le scatole a lui e a Rafa, per il quale si ironizza sull’influenza che lo ha messo fuori squadra alla vigilia, defezione vista come un anticipo dell’esclusione di Amsterdam. Anticipazione: non avverrà.

Vincenzino Scifo si è sudato tutto in carriera. Piedi meravigliosi, capacità di impostare e di far girare il centrocampo, buona attitudine a trovare la via della rete: questo è il belga. Giunto in Italia troppo presto, non ha convinto all’Inter. Quella stagione deludente ha spesso condizionato i giudizi nella ben più fulgida parabola granata. Mettiamola giù semplice: quando uno dei motivi di critica è avere la brillantina in testa siamo di fronte a un accanimento dei più imbecilli. Quanto ti ho amato e quanto ti ho amaramente rimpianto nei pomeriggi in cui in mezzo al campo c’era gente che al pallone non riusciva nemmeno a dare del voi, altro che del tu.

Il terzo gol è di quello che in un mondo logico avrebbe dovuto essere il nostro futuro e non una cessione al Venezia per un miliardo più Petrachi.  Christian Vieri trova la prima gioia in massima serie su traversone di Annoni con un bellissimo colpo di testa. Il quarto centro invece è di colui che recuperiamo per Amsterdam e speriamo sia l’arma in più, cioè Roberto Policano che si presenta in area lanciato splendidamente da Scifo, fa quello che vuole  e alla fine decide di metterla con morbidezza di sinistro. Ci crediamo tutti, più si avvicina il momento e più ci crediamo, l’assenza di Bergkamp annunciata poco prima del calcio d’inizio è soltanto un segnale in più. In campo, sugli spalti, davanti al televisore siamo convinti molto più dell’andata che possiamo vincere quella coppa. Cito anche una volta Marco Cassardo: “Torino abbassa le serrande sicura di rialzarle due ore dopo per andare a piazzare le bandiere sui balconi e scendere in strada a fare festa”.

Tredici maggio, ore venti e trenta. Petrovic fischia l’inizio di Ajax-Torino. Toro privo degli squalificati Bruno e Annoni, sostituiti da Mussi e Benedetti. C’è Policano, c’è Fusi e c’è anche Vazquez. Van Gaal per sostituire Bergkamp mescola i numeri: la dieci finisce a Pettersson e la otto ad Alflen che riempie la casella lasciata vuota da Dennis. Per metà tempo non succede nulla, poi l’Ajax conquista un angolo dubbio che Roy mette sulla testa di Pettersson. Marchegiani è battuto, ma il petto di Fusi, sulla linea, è il suo miglior alleato. Il portiere granata compie la sua prima, bella, parata subito dopo su un fendente dalla distanza di Roy, che deve convergere per avere requie dal duello ingaggiato con Mussi sulla fascia.

Tocca al Toro battere un colpo. Lentini va via sulla sinistra e crossa in area per Casagrande che sovrasta i difensori olandesi e colpisce di testa. Bene, “troppo bene” come dirà Casao negli spogliatoi. La palla picchia contro il palo e ritorna in campo con Menzo che definire battuto è un eufemismo. Casao ha un gesto di stizza, ma sembra ancora una cosa normale. Un salvataggio sulla linea per loro, un palo per noi. Ci può stare.

Passano pochi minuti e Vazquez taglia il campo con uno splendido lancio per Cravero, in proiezione offensiva. Il capitano punta deciso l’area, affronta De Boer e finisce a terra. Dalle immagini sembrerebbe lui a cercare il contatto. Il capitano dirà che l’olandese lo ha tirato per il pantaloncino. Le telecamere inquadrano Robi che solleva le braccia incredulo per il rigore non fischiato, poi volano a bordo campo. Le panchine non sono delle vere panchine, ci sono delle sedie pieghevoli. Una è in mano Mondonico che la alza. “Questi qui fanno i furbi” è ciò che ha pensato in quei momenti che ha visto Cravero cadere in area e disperarsi. Poco dopo il mister rimette la sedia al suo posto, si gira e vede dei ragazzi disabili. Si pente immediatamente di quel gesto istintivo, ma è tardi perché quel gesto è immediatamente Storia. Si potrebbe riempire un’enciclopedia con quello che si è detto e scritto a riguardo. La sedia come “arma” da osteria, come ribellione contro le ingiustizie. La sedia che diventa coro: “Emiliano alzaci la sedia”, come se fosse un tutt’uno con le sue braccia, una loro prosecuzione. Pochi secondi per le leggenda. “Mondo” è e sarà molto più di quella sedia, ma sicuramente è ANCHE quella sedia.

Un’uscita bassa spericolata di Marchegiani su Winter fa gridare al rigore gli olandesi, ma Petrovic non lo fischia. Intervento al limite, sospiro di sollievo, e ultima reale emozione del primo tempo. Nella ripresa sembra dominare la tensione. Il palleggio dell’Ajax inizia a farsi meno sicuro, mentre, dall’altra parte, il Toro cerca di trovare un varco giusto, ma ogni volta che pensa al cronometro è un crampo allo stomaco. All’ora di gioco Mondonico richiama Scifo per inserire Bresciani. 4’ prima uno zoppicante Cravero ha lasciato il posto a Gianluca Sordo.

Gianluca Sordo viene dal Filadelfia, uno dei giovani migliori del suo gruppo come dimostrano i suoi primi passi nel Toro di Fascetti. Subito a suo agio fra i “grandi”, segna anche gol pesanti come quello contro il Pisa che vale l’aggancio in vetta ai toscani. Bravo sulla fascia, ma capace di ricoprire anche ruoli più difensivi ha avuto sicuramente di quanto meritasse quando è andato via dal Toro per il Milan, forse perché i rossoneri, in quel periodo, potevano essere affascinati come il canto di una sirena, ma anche brucianti come il sole che scioglie le ali a Icaro quando si è avvicinato troppo a lui. Ha segnato un gol nella finale dell’europeo under 21 del 1992, il primo della storia degli azzurrini. Avrebbe potuto segnare quello che lo avrebbe reso immortale sul serio, ma una dannata traversa non ha voluto. Però Gianluca è diventato immortale lo stesso, visto che quello del Toro gli chiedono sempre di quel dannato tiro e gli vogliono e gli vorranno sempre un bene particolare.

Al 73’ la palla è per Mussi a una ventina di metri dalla porta olandese. Il numero due controlla e batte col destro, la sfera incoccia la gamba di Blind e si impenna. Menzo si era già buttato a terra perché la conclusione originaria di Roberto era radente, ma il tocco del capitano biancorosso cambia la parabola del tiro. Il portiere annaspa con le mani per cercare di acchiappare un pallone che lo ha già superato, può solo guardare e pregare. Si vede che lo fa con gli dei giusti, perché la sfera incoccia incredibilmente la base del palo e non entra. La crudeltà dell’immagine di Benedetti che alza le braccia perché quella palla sta entrando e poi si ritrova con le stesse braccia sulla testa per disperarsi si descrive da sola. Secondo palo. Fa male.

Siamo tutti avanti, l’Ajax ha praterie in contropiede, ma né Alflen né Van Loen sono all’altezza dei compagni e non ci puniscono regalando a Marchegiani la possibilità di due parate facili facili. Non ci accorgiamo nemmeno di quelle azioni, continuiamo a guardare l’altra porta sperando che capiti qualcosa, pregando che capiti qualcosa, ma i nostri dei sono più distratti di quelli di Menzo. A un soffio dal novantesimo l’ennesima mischia. Mussi ha la forza di saltare altissimo e buttare la palla dentro l’area. Sordo è in mezzo a due avversari, ma riesce a coordinarsi e a colpire perfettamente la sfera col destro. Ogni volta che riguardo quell’azione spero che entri, spero che io mi sia sognato la beffa e questi trent’anni che sarebbero stati molto meglio se quel pallone fosse entrato. Spero di svegliarmi in un mondo migliore, perché sarebbe stato un mondo migliore se sull’albo d’oro ci fosse scritto “1991/92: Torino”. Invece la storia è sempre la stessa. La palla sembra che entri, ma non entra. Non picchia addosso a Menzo per andare in rete. Non finisce ad alcun granata ben appostato per appoggiare nella porta sguarnita. Colpisce la traversa e se ne va.

Il resto è storia. Da quella sera non riesco più a sentire “We are the champions”, la odio. Se vincessimo mai qualcosa di serio, metterei un’altra canzone. “What a wonderful world”, per esempio, andrebbe benissimo perché un mondo col Toro che vince è un mondo meraviglioso. Ma il Toro quella sera non ha vinto. Non ha perso e comunque non ha vinto e l’Ajax si trova quella coppa in mano senza capire perché. Scifo, prima dell’andata, rammentava il modo beffardo in cui il suo Anderlecht perse la Coppa Uefa contro il Tottenham con il gol del pareggio subito a pochi istanti dalla fine e la sconfitta ai rigori. Dopo un mese lui e i compagni erano ancora storditi dall’accaduto. Noi lo siamo dopo trent’anni e sicuramente pensiamo ed amiamo e parliamo della coppa Uefa 1992 molto più di chi l’ha vinta e festeggiata quella notte di maggio.

Ci sono ancora due partire da disputare e un’Europa da blindare. La prima, il giorno successivo alla morte del grande Gino Rossetti, è a Bergamo, l’ultima in casa di Stromberg prima di lasciare il calcio. Si potrebbe pensare a un Toro svuotato e triste, ma ormai in questo finale di campionato siamo Grandi e tali rimaniamo. In una sorta di beffardo continuum, Sordo inizia la partita come l’aveva chiusa ad Amsterdam visto che un suo cross dopo pochi minuti centra la traversa. Stavolta però, oltre a colpire legni, il Toro fa anche gol. Sulla rimessa lunga di Annoni, la spizzata di Lentini regala a Bresciani la possibilità di segnare con una girata mortifera. Poco dopo è un tiro da fuori di Scifo, dopo una grande azione personale, a valere il raddoppio. Sebbene in dieci per l’espulsione di Cornacchia, l’Atalanta dimezza lo svantaggio con Caniggia (e Sordo che finisce sul palo nel tentativo di recuperare è solo un altro capitolo del rapporto complicato fra noi e i legni), ma a chiudere la gara ci pensa Pasquale Bruno che segna una rete incredibile, quella che tutti noi attendevamo da due anni. Scifo serve il numero due, in posizione di centravanti, che controlla col destro alzandosi leggermente il pallone, palleggia col sinistro eludendo il recupero di un difensore in scivolata e poi scarica dentro con una gran botta di destro prima di correre folle di gioia sotto il settore ospiti. Una rete meritatissima.

Un timido giro di campo il giorno del primo raduno al Filadelfia, fresco di arrivo dalla Juventus, per prendere confidenza con l’ambiente ostile. Inizia così l’esperienza di Pasquale Bruno al Toro che, nel giro di poche settimane, diventa l’idolo della curva. Durissimo, sopra le righe, sfrontato, ma anche un bravo difensore, grandioso sull’anticipo e in grado di domare attaccanti fortissimi. La tanto criticata cattiveria di Pasquale in realtà è stata più un atteggiamento che altro, forse il solo Raducioiu può davvero lamentarsi di ciò che gli fece. Sincero, schietto, simpatico, di cuore, questo è il Pasquale uomo, sempre gentile, sempre disponibile. Che bello che il suo unico sigillo granata sia stato così spettacolare.

Il pubblico atlantico si riversa in campo prima che termini la gara, che ha visto anche un palo di Bresciani nel finale tanto per non perdere l’abitudine. I cori minacciosi per Bruno fanno sì che le forze dell’ordine aiutino Pasquale a trovare l’uscita ed evitare il peggio al momento dell’invasione. Poi la gente di Bergamo va da un altro avversario, va da Emiliano Mondonico che è stato cosa loro per tre splendide stagione e, sentendolo ancora cosa loro, lo portano in trionfo. Se un alieno arrivasse in quel momento penserebbe che l’Atalanta avesse vinto lo scudetto e stessero festeggiando il tecnico che li aveva condotti al successo. Forse bisognerebbe metterci un po’ per raccontargli il rapporto tra il “Mondo” e i tifosi.

“Larger than life”, superiore alla vita stessa. E’ uno dei modi di dire più significativi della cultura anglosassone per definire gente di personalità e importanza davvero enormi, tanto da diventare icone. Emiliano Mondonico lo è sicuramente, ma è un’icona particolare, coi piedi per terra, pane e salame, che ama la sua famiglia, il pallone, la sua cascina, gli amici, la musica. Il mister è difficile da raccontare in poche righe, onestamente anche con molte. Basti pensare all’amore che trasversalmente lo ha abbracciato e lo continua ad abbracciare e non stiamo parlando di un personaggio “comodo”, anzi. Il Mondo non scordava le critiche e, col sorriso, le ricordava a chi di dovere al momento opportuno. Forse questa schiettezza lo ha fatto adorare così, come il cuore infinito in campo e soprattutto fuori. Bruno lo ha definito il suo tecnico ideale per la sua “intelligenza anarchica”, espressione meravigliosa. Ma com’è che ci manca ancora così tanto?

Vincendo a Bergamo, il Toro sorpassa il Napoli sconfitto a Firenze ed è terzo. L’ultima di campionato è contro l’Ascoli retrocesso da settimane e il podio sembra davvero cosa fatta. Il campo mantiene le promesse, anche se con qualche comprensibile distrazione. La partita si mette subito in discesa col primo gol in serie A di Sordo che si fionda in un varco troppo invitante per non essere sfruttato e batte Lorieri con un forte destro. Sugli sviluppi di un corner, Bresciani conclude rasoterra, Lorieri respinge e Zaini non riesce ad allontanare ben il pallone così Benedetti riesce a segnare in scivolata un gol meritato.

Silvano Benedetti ha fatto coesistere in sé molti opposti. Al tempo stesso elegante e duro, corretto e mai molle. Vederlo staccare di testa col suo metro e ottantacinque è sempre stato uno spettacolo, testa leggermente inarcata all’indietro e palla impattata alla perfezione con l’attaccante di turno inesorabilmente anticipato che ricade a terra deluso. Ha sempre segnato almeno un gol, tra campionato e coppe, in ogni stagione col granata addosso. Non poteva lasciare senza siglarne uno anche nel suo ultimo anno al Toro.

Maniero prova a riaprire la gara in mischia, ma in breve tempo arriva il 3-1 con un’azione da stropicciarsi gli occhi. Scifo batte un corner da destra fuori area per Annoni che appoggia in area di testa a Benedetti. Torre per Casagrande che, con un colpo di genio, controlla di sinistro e poi, con un tacco giocato con invidiabile nonchalance, libera al tiro dal limite Martin Vazquez che trova la rete con una gran rasoiata mancina. Nella ripresa un tiro di Annoni deviato da Pierleoni vale il poker, poi lo stesso Tarzan sfonda a destra e crossa lungo. La sfiorano in molti, ma la palla arriva sul secondo palo per Lentini che al volo di sinistro fa 5-2 e va sotto la Maratona. Il gol di Zaini con tiro fra le gambe di Marchegiani non inficia il titolo di difesa meno battuta per noi. La partita finisce, non c’è vera e propria invasione, ma alcuni tifosi arrivano dalle parti di Lentini, gli danno una bandiera e lo prendono a spalle per fargli prendere l’ovazione della sua gente.

Gigi Lentini è l’estro, la genialità, la potenza che non disdegna la tecnica. E’ il calciatore moderno che sa destreggiarsi anche nel calcio antico. Vederlo scavallare sulla fascia coi capelli al vento è di un impatto pazzesco, soprattutto per quei ragazzini che hanno bisogno del poster di un idolo da mettere in camera quando si avvicinano al calcio. Gigi ci ha fatto sognare, Gigi ci ha fatto godere. Di Gigi spesso si è parlato con tanti “se”, ma in realtà è una certezza: dal 1990 al 1992 è stato il miglior giocatore italiano e su questo non ci sono discussioni. L’ho visto, lo so. La rabbia che ho provato quando ha vestito il rossonero, e sì che stava rinunciando a un’offerta incredibile per rimanere, è pari solo all’amore che ho sentito il giorno in cui ho letto che tornava. Le cose non sono andate benissimo, ma chi se ne frega, coi ritorni finisce sempre così, ma rinunciare al massimo palcoscenico e a una più che probabile convocazione in nazionale coi mondiali di lì a pochi mesi è una prova d’amore che vale più di tanto altro.

E’ finita, si tira già la serranda. Il Toro è terzo, miglior piazzamento dal 1985, mai più eguagliato dopo. In questa festa finale c’è malinconia e paura del futuro. C’è anche un lato oscuro in quel Toro e Riccardo Bisti l’ha raccontato bene nel suo imprescindibile “Il Toro di Amsterdam”, con chiarezza, senza fare sconti e, al tempo stesso, senza polemiche sterili. Quel lato oscuro ci farà male, ci farà vendere i pezzi migliori e, a poco a poco, ci toglierà quel Toro Grande Squadra che tanto abbiamo amato e continuiamo ad amare. Quel Toro che per rendimento venne indicato come prima squadra al mondo in quel finale di stagione, da lì lo slogan “Terzi in Italia, secondi in Europa, primi nel mondo” che accompagnò la campagna abbonamenti successiva. E’ stato un viaggio lunghissimo, faticosamente bello, in cui spero di essere stato all’altezza nel far rivivere tutti i momenti di quell’annata pazzesca, dai più noti a quelli rimasti nelle retrovie. E, soprattutto, vorrei che fosse chiara una cosa che ho già detto e che ribadisco: se fosse entrata la traversa di Sordo, avremmo avuto DAVVERO un mondo migliore.

8 - fine

 

 

 

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