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Una lucida follia

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Torna l'appuntamento con "Gran Torino" la rubrica di Danilo Baccarani: "A San Siro, il 27 gennaio 2013 finì 2-2 e ci sembrò di volare dopo anni di Serie B e delusioni..."
Danilo Baccarani
Danilo Baccarani Columnist 

Dopo la pessima prestazione e in conseguente pareggio contro il Frosinone, il campionato del Toro è entrato definitivamente in quel limbo di insoddisfazione, pessimismo e fastidio che contraddistingue questo tipo di situazione. Impossibile o quasi, salvo miracoli, raggiungere la zona Europa, nonostante il plausibile allargamento delle partecipanti italiane che non fa che aumentare a dismisura rimpianti e smoccolamenti vari. Al Toro ter di Juric è mancato ancora una volta il fatidico centesimo per fare la lira. Convinzione, certezze, esperienza, carenze tecniche e di organico, mentalità, chi più ne ha più ne metta e, da qualche mese a questa parte, appare ancora più complesso immaginare che Cairo confermi la fiducia al tecnico croato prolungandogli il contratto.

Da un lato, la permanenza di Juric sarebbe un segnale di continuità e di volontà nel proseguire un discorso che esula dal semplice fattore tecnico. È pur vero che nel calcio parlano i risultati e che le attenuanti generiche possono (o potrebbero) essere date a Juric e non certo a Cairo, ma, allo stesso tempo, il triennio del tecnico spalatino è stato piuttosto monocorde e pare arrivato al capolinea anche in termini prettamente calcistici. La partita con il Frosinone è lo specchio di questi tre anni. Poche idee sempre uguali, mai un guizzo tattico per sparigliare le carte, mai un rischio anche non calcolato, mai un gesto coraggioso né tantomeno una lettura alternativa all’interno del match.

Vero è che Juric quando si gira verso la panchina non ha la profondità di altre squadre e che tra infortuni, bizze, squalifiche, scarsa qualità, le risorse sono quelle che sono.

Lo abbiamo già scritto, al Toro sono mancate troppe cose e se la classifica permette ancora di sognare, è per via di una concorrenza che ama giocare a ciapanò. Il calendario non ci viene di certo in soccorso e le residue speranze sono legate a veri e propri miracoli: Inter a Milano, Bologna in casa (la sera prima del 75esimo di Superga), Verona fuori, Milan in casa, Atalanta fuori: ho visto strade più facili anche se per molti dei nostri avversari gli obiettivi potrebbero essere già tutti raggiunti…

Senza troppe illusioni e soprattutto con il ruolo di invitati alla Festa Scudetto, ci appropinquiamo alla cerimonia di domenica, ore 12.30 a San Siro. L’Inter ancora ebbra della vittoria tricolore nel derby (una combo mica da ridere) ci ospita in una partita che farà da preludio ai classici bagordi cittadini.

Cosa aspettarci? Le partite di fine stagione in cui si festeggia, generalmente sono piene di gol. Viene da sorridere se pensiamo che il Toro non segna nemmeno con le mani e la fase difensiva è la specialità della casa. Certo è che i nerazzurri non vorranno sfigurare davanti al proprio pubblico e ipotizzare un Toro che gioca a dar battaglia, mi risulta difficile. Pronostico chiuso? Può darsi. Sicuramente non partiamo favoriti e su questo credo non ci sia nessun dubbio. Nei due precedenti incontri a San Siro, nell’era Juric, il Toro è capitolato due volte per 1-0, sempre in maniera immeritata. Ricordiamo la beffarda sconfitta dell’anno scorso con gol di Brozovic allo scadere, dopo che Handanovic aveva vinto la palma di migliore in campo e l’anno prima, il gol di Dumfries in contropiede (!) consegnò ai nerazzurri i tre punti.

Andando a ritroso nel tempo, ricordo una vittoria soffertissima per 1-0 con gol di Cravero su rigore, febbraio 1988, due pareggi in apnea per 1-1, Mendez (2000) e Bianchi (2009) con una torsione aerea di pregevole fattura.

Certo che le due vittorie in fila, 2015, Moretti sugli sviluppi di calcio d’angolo e 2016, Molinaro-Belotti in rimonta, sono ancora lì a testimoniare che il David Granata è capace di infastidire il Golia nerazzurro.

Ma la partita di cui parliamo oggi è l’Apocalisse granata. Inter-Toro 2-2, 27 gennaio 2013. Quando mi chiedono: credi nei miracoli, ricordo sempre una fortunata scena di Ricomincio da tre del compianto Massimo Troisi. Gaetano (Troisi) sta discutendo animatamente con il suo amico Lello (Arena) su un concetto molto semplice. Quanti tipi di miracoli esistono? Per il primo esistono i miracoli, per il secondo esistono diversi tipi di miracoli, con difficoltà variabile, quelli che Troisi, per celia, chiamerà miracoli da 100 punti, per distinguerli da miracoli “minori” da 50 punti. Quella sera, a San Siro, andò in scena qualcosa di inimmaginabile: la doppietta di Riccardo Meggiorini. Anzi, perdonatemi, la prima doppietta in serie A, di Riccardo Meggiorini.

Un miracolo da 1000 punti.

Ognuno sceglie i propri capri espiatori. Davanti a me in curva c’è un tizio che ripete ossessivamente il nome di un giocatore (di cui ovviamente non farò il nome), incolpandolo delle nefandezze più efferate. Dal sacco di Roma, all’omicidio di Kennedy, dall’invasione della Polonia ad un passaggio sbagliato, il passo è brevissimo. Riccardo Meggiorini è stata la mia kryptonite. Premetto. I giocatori del Toro si sostengono tutti (o quasi tutti) fino a prova contraria e, sicuramente, prima del buon Riccardo ci sarebbe un elenco di mezze tacche che manco si sono degnate di impegnarsi. Il Meggio invece è sempre stato un generoso. Così dicevano gli umori e la pancia della curva. Aggiungo, e meno male. Perché il peccato originale del Meggio era quello di essere un attaccante e di vedere la porta poco e niente. Ma quella sera, nel 4-2-4 di un Toro votato all’attacco, Meggiorini esaltò le sue caratteristiche riuscendo a timbrare una doppietta d’autore alla Scala del Calcio.

Proprio lui, l’attaccante dalle polveri bagnate, reduce da un digiuno di oltre due anni (non segnava in A dal settembre 2011, sempre all’Inter, Novara-Inter 3-1), visse la sua notte magica. Se poi consideriamo che il Meggio è cresciuto calcisticamente nel vivaio interista, il cerchio si chiude. Dopo nemmeno cinque minuti, il Toro va sotto. La punizione di Chivu, un ricciolo arquato che passa sopra la barriera, è un gioiellino mica male sul quale Gillet nulla può. Il Toro accusa ma non si scompone. Il manuale del calcio libidinoso di Mister Ventura parla chiaro: ampiezza, dominio tattico, pressing altissimo. L’1-1 nasce da un recupero palla al limite dell’area interista. Meggio pressa, sfila la palla a Guarin e serve Barreto. Il brasiliano, di prima, restituisce il pallone e il numero 69 granata, di bianco vestito, lascia partire una staffilata mancina che pietrifica Handanovic.

Nel secondo tempo il Toro esagera. Il pressing è feroce, Cerci slalomeggia novello Tomba e a tratti è incontenibile. Su una sua sgasata che incenerisce Pereira, l’Henry di Valmontone entra in area e c’entra basso per Meggiorini che di piattone infila Handanovic. È l’estasi. Oppure qualcosa di tremendo che si abbatterà sulla nostra specie lasciandoci soli in questa parte di universo. Il pari di Cambiasso è la logica conseguenza di un’Inter che si scuote dal torpore e agguanta immeritatamente il pari. Ma quando tutto, ma proprio tutto, sembra apparecchiato per un nuovo miracolo italiano, le congiunzioni astrali definiscono che quanto starebbe per accadere, sarebbe davvero troppo.

È lo scadere.

Birsa, al limite dell’area, asseconda il movimento, perfetto, di un immarcescibile Meggiorini. Palla deliziosa che mette l’attaccante in condizione di battere a rete. Mancino potente e porta spazio temporale che sta per aprire un varco in cui il pianeta Terra rischia di essere inghiottito. Meggiorini tira forte, Handanovic respinge il pallone di una tripletta da urlo, salva il risultato e sventa una vittoria che al Toro, a San Siro, mancava dal 1988 (Cravero appunto).

Lo avremmo meritato, come meritiamo, tuttora, qualcosa di più. Anzi, molto di più. Non moltissimo, ma qualcosa che vale sicuramente di più di un Toro-Bologna ad un euro. Meriteremmo di più. Meriteremmo di giocarci qualcosa di importante. Meriteremmo di non dover cercare nei rimpianti e nei nostri errori (oltre che nei nostri limiti) le spiegazioni di una mediocrità infinita e tristissima.

Meriteremmo di vedere un Toro gagliardo, visto solo a sprazzi in questi ultimi tre anni. Ma poi, diciamocela tutta. Meriteremmo risultati. Perché l’impegno ok e la maglia sudata, non bastano più. Serve qualità, servono giocatori che facciano la differenza, servono allenatori con idee.

A San Siro, il 27 gennaio 2013 finì 2-2 e ci sembrò di volare dopo anni di Serie B, di delusioni, di sconfitte cocenti. Per evitare di domandarci sempre cosa e quanto manchi per raggiungere certi obiettivi, servirebbe un’idea meravigliosa.

O una lucida follia come una doppietta del Meggio.

Chiosa: in un bella diretta X di qualche giorno fa, Giacomo Morandin ha svelato un interessamento del Toro per l’allenatore della Fiorentina, Vincenzo Italiano. Seguendo quella trasmissione mi sono ritrovato a riflettere sul profilo dell’eventuale nuovo allenatore del Toro per la prossima stagione. Posto che credo che Italiano sia molto ambizioso e che non sono un suo grande estimatore (aggiungerei anche esticaxxi), pensando ai nomi che circolano devo ammettere che per sostituire Juric con nomi paritari, non mi sembra una operazione molto sensata. Nell’articolo parlo di una lucida follia. A questo termine associo due allenatore in antitesi. Uno è Paolo Vanoli, poca esperienza ma nome fresco e nuovo. L’altro è Maurizio Sarri.

Una lucida follia, appunto.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

Disclaimer: gli opinionisti ospitati da Toro News esprimono il loro pensiero indipendentemente dalla linea editoriale seguita dalla Redazione del giornale online, il quale da sempre fa del pluralismo e della libera condivisione delle opinioni un proprio tratto distintivo.

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