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Il futuro non muore mai (e nemmeno il calcio)

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Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Racconta che hai segnato un gol, anche se nessuno ti crederà”. 

Osvaldo Soriano

La mia infanzia è stata costellata da due certezze granitiche: il cortile e “Tuttosport”. A guardarla con gli occhi di oggi  non deve essere molto facile da comprendere il contesto della mia infanzia, dove l’assenza delle scuole calcio potrebbe essere facilmente confuso da molti miei contemporanei come un plot di un buon racconto horror dove c’è tutto, tranne il lieto fine. A dire il vero non saprei dire se oggi ancora esiste un quadro sociale del “cortile”, dove un tempo gli incontri erano estemporanei, ignoti e, soprattutto, affascinanti. La cosa a legare al cortile era la possibilità di “essere” all’improvviso, di sbocciare quando tutti ormai attendevano un “messia” da qualche altra parte. Erano l’assenza di regole, la regola aurea del cortile, e la sua difesa, esistenziale e territoriale, era esattamente quella descritta da Ferenc Molnar  nel suo “I Ragazzi della Via Paal”.

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Gli adolescenti disegnati da Molnar nel capolavoro della letteratura magiara, difendono il “Grund”(appezzamento non ancora edificato dalla speculazione edilizia senza scrupoli nella Budapest del primo 900) senza nessuna esitazione. Difendere il “Grund” non è solo l’estremo tentativo di riservarsi un campo di gioco, ma anche, e soprattutto, raccontarsi con convinzione la possibilità dell’esistenza dell’alternativa. “Non ti consento, no, proprio non voglio consentirti di rubarmi tutto in nome di un progresso deciso chissà quando e chissà da chi”, è il grido di battaglia di chi conosce il valore dello spazio, di chi ha anche una vaga idea di quanto sia costato elaborarlo anche fosse solo come concetto. "Se sono caduto, è perché stavo camminando”, scrive Eduardo Galeano, sicuramente pensando, nel suo mondo elaborato sotto forma di una sfera di cuoio, al rincorrere un pallone nella libertà di pensiero concessa dal cortile.

Tutto cambia, e quando Walter Sabatini, uno dei leggendari direttori sportivi del nostro calcio, racconta di essere certo, quando era in coma, “di aver visto il paradiso, e sembrava un supermercato”, un bravo giornalista lo chiosa imprecando contro il consumismo, reo di aver ucciso anche Dio. E se Dio è stato ucciso, vuol dire come non sia quello semplicemente morto raccontato da Friedrich Nietzsche in “Così Parlò Zarathustra”. Quella del grande filosofo tedesco è una costatazione, utile e accomodante per le attenzioni più distratte, ma la curiosità non succube dell’anomia contemporanea dovrebbe provare a chiedersi chi è l’omicida, giusto per non lasciare impunito un delitto. A pensarci bene, però, l’impunità è la pietra angolare di ogni pensiero moderno, dove l’attenzione è sempre stata più diretta verso il “delitto” invece che sul “castigo”, in barba ad ogni sforzo esistenzial letterario di Fedor Dostoevskij. 

Nelle eterne discussioni sui calci di rigore dati e non dati, il calcio ha sempre provato a recuperare il concetto di “castigo”, succede quando si ragiona molto su cosa sia accaduto su quel territorio sacro e altamente monitorato da occhi infiniti istituito come area di rigore di un campo di calcio. Quando ancora non si parlava di plusvalenze, di mercato calciatori dell’era della “Sentenza Bosmann”, di pressing e difese alte, era l’area di rigore a dominare ogni ossessione calcistica. L’arbitro, sia chiaro, era sempre un “cornuto” e il presidente era sicuramente quello colpevole di non volersi rovinare per la nostra squadra del cuore, ma il calcio di rigore era la metafisica di ogni idea di scorciatoia, il miracolo mistificato sotto forma di uno sgambetto o di un fallo di mano. Il calcio di rigore esiste perché la sanzione, nel calcio, è sempre stata pensata con la connotazione dell’esemplarità. E’ la tentazione di fare capolino sulla “Piazza  della Ghigliottina”, di quella Rivoluzione Francese rivenduta ai posteri come la fine della disuguaglianza e l’inizio di ogni equità sociale. "Cazzo, e quando  mi ricapita una botta di fortuna così”, pensa il giocatore in attesa di calciare il pallone posto sul dischetto degli undici metri. 

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Nel cortile non c’erano undici metri liberi per pensare al calcio di rigore, e poi non c’era l’arbitro cornuto, e poi non c’erano i bar e le osterie a commentarlo, e poi, e poi, e poi… e poi c’eri tu ad inseguire il pallone in modo assolutamente  anarchico, perché è così, secondo Borges, che ogni volta riparte la storia del calcio. Quest’ultima è una cosa seria, ha attraversato le nostre vite con leggerezza e con lo scuotimento di un tifone, non curandosi minimamente di averci fatto precipitare in uno stato dicotomico permanente. Nei giorni scorsi il matematico Piergiorgio Odifreddi ha commentato i festeggiamenti della vittoria Azzurra degli Europei di calcio, come una manifestazione di infantilismo popolare, facendo venire in mente come ci sia sempre un intellettuale, o presunto tale, pronto a rovinare la festa per un complesso di superiorità  impossibile per lui da non manifestare, in una sorta di malinconia da “sabato del Villaggio” leopardiano, senza però avere un briciolo della grande classe letteraria del poeta marchigiano.

Ma ognuno ha la sua storia e il suo pedigree di umanità e di comprensione delle cose. Infante mi recai al primo appuntamento con quello che sarebbe divenuto il mio primo “padre spirituale”, un frate “Cappuccino” famoso per alcuni particolari carismi spirituali e per essere stato confessore addirittura del mitico Padre Pio. Quel giorno venivo dal cortile e avevo una copia di “Tuttosport” sotto il braccio, visto che il quotidiano fondato da Renato Casalbore, meridionale come me, era l’unico modo per tenermi in contatto con la realtà della mia squadra del cuore lontana centinaia di chilometri da casa mia. Padre Alfonso aveva una barba lunga bianca, un aspetto ieratico, una faccia ornata da un paio di occhiali dalle lenti strette e sottili e due mani pronte a farti comprendere a suon di sberle come il mondo vada realmente. Mentre mi sedevo, un po’ tremebondo e soggiogato dal carisma, padre Alfonso aveva lanciato un’occhiata al giornale finito poggiato sulle mie gambe. La reazione istantanea, vista l’occasione e il luogo dove mi trovavo, era stata quella di iniziare una fulminea giustificazione del motivo della presenza di “Tuttosport”, ma il palmo della mano pronto e deciso del frate aveva interrotto ogni mio tentativo velleitario di giustificazione. “Ora mi ammazza”, avevo pensato, preparandomi con rassegnazione alla giusta reprimenda e alla conseguente punizione. Ad influenzarmi, probabilmente, era il complesso del calcio di rigore, stavolta  fischiatomi contro. Padre Alfonso aveva preso tra le mani “Tuttosport”  e aveva cominciato a sfogliarlo, confessandomi come non lo avesse mai letto, visto come la sua fede interista lo aveva da sempre reso incline verso le pagine rosa della “Gazzetta dello Sport”. A quel punto, con mia somma sorpresa, mi aveva chiesto cosa pensassi del “mio” giornale e quale fosse la mia squadra del cuore. Forse farfugliai qualcosa di particolarmente comico, perché l’unica reazione del frate che ricordo è un sorriso, non so se di comprensione o di inizio di una qualche complicità.

Oggi potrei dire a Padre Alfonso, che “Tuttosport” nella mia infanzia ha avuto il ruolo di Kevin Costner in “L’uomo del Giorno Dopo”, dove l’attore americano si cala nei panni dell’ultimo postino in un mondo ridotto nella tipica condizione post apocalisse. In quella pellicola Costner/Shakespeare (questo è il nome del personaggio interpretato dall’attore americano) si ostina, contro ogni logica, a consegnare la corrispondenza tra le varie comunità sopravvissute e racchiuse in futuristici cortili. Tenermi in contatto dal mio cortile, dove tutto mi accadeva, con il Toro e le sue vicende è stato il regalo fatto da “Tuttosport” all’infanzia che stava provvedendo a farmi diventare adulto. E ora che le due pietre angolari del “grund” della mia anima riaffiorano, potrei anche avere lampi di depressione prendendo atto come tutto, attorno, sia cambiato. Mi sorprendo a pensare al futuro, a come sarà e in che modo lo stiamo costruendo e non sono pessimista grazie a Julio Roque Perez, tifoso del “Godoy Cruz” e orfano di qualsiasi affetto si possa immaginare, nonni e genitori compresi. Julio, povero in canna, vince una barca di soldi alla lotteria e cosa pensa bene di fare? Li regala tutti al “Godoy Cruz”, che con quei soldi costruisce la tribuna dello stadio e l’impianto di illuminazione. Julio Roque Perez condurrà tutto il resto della sua vita in povertà, ma felice di aver fatto qualcosa di grande per il suo cortile, per il suo “grund”, per l’amore della sua vita. Anche se notoriamente gli argentini sono più matti di un cavallo imbizzarrito, la storia di Julio sembrerebbe un buon viatico per “Interspac” di Cottarelli e per “ToroMio”, un invito ai tifosi giunto dal tempo a non mollare e ad insistere, perché il cortile appartiene a  loro. Sarà meglio non giungere alla stessa conclusione di Juan Josè Castelli, che quasi morto da una cella di un anonimo carcere argentino, e dopo aver fallito rivoluzioni varie, mandò a dire ad un amico: “Se vedi il futuro digli di non venire”. 

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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