“L’uomo si rifugia nel linguaggio”
loquor
La coscienza sfregiata tra Guardiola e Chiesa
Nicolas Gomez Davila
Viviamo in un tempo in cui è quanto mai urgente provare a sciogliere i legami del linguaggio, il che sembra quasi una aporia considerato come il linguaggio sovente non è pensato per chiarire, ossia per sciogliere, ma per incastrare i fatti all’interno di scenari scaraventati nel mistero e nell’inspiegabile, a loro volta forieri di altri linguaggi strutturati per confondere e, alla fine, corrompere ogni tipo di libertà. Da questo clima di dannazione sociale e psicologica non sarà il bar (oggi internet) a salvarci dalla nostra anomia, perché il bar annulla la coscienza a causa della mancanza del senso dello scandalo. “Una coscienza senza scandalo è una coscienza alienata” scrive Georges Bataille, ed è proprio così che ho vissuto la lettura su Tuttosport di una intervista a Federico Chiesa, dove la coscienza alienata viene fuori in tutto il suo fulgore, incastrata in un linguaggio dove il rammarico è il felpato stato d’animo usato per non dire a chiare lettere di essere stati derubati di qualcosa a cui si aveva diritto: “…rosico pure un po’, ma soltanto perché quel palcoscenico l’avevamo meritato e ci è stato sottratto. Il Milan è arrivato quinto e ora disputa la Champions soltanto perché a noi è stata tolta”.
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Qualcuno ha scritto come la coscienza sia “il testimone esclusivo di ciò che succede nell’intimità della persona, della sua essenziale rettitudine o malvagità morale”, e ciò è qualcosa passibile di utilità ad un necessario dialogo con noi stessi, al fine di non smarrire il vero senso del da farsi. Non deve aver letto o ragionato su questo nemmeno Pep Guardiola, una icona del calcio mondiale persa nel terrore, messa di fronte al caso dei rapporti tra l’ex vicepresidente degli arbitri spagnoli Henriquez Negreira e il Barcellona, di perdere la gloria conquistata sul campo: “quello di cui sono sicuro è che il Barca ha vinto e, quando ci è riuscito, è avvenuto perché ha fatto meglio dei rivali”. Se il linguaggio incastra, il pensiero dovrebbe aiutare a districarsi dall’incastro diluendo, fino a farle per un attimo scomparire, le nostre contraddizioni mostrate negli eventi in cui siamo coinvolti per giustificare e difendere ogni privilegio raggiunto. Avrebbe dovuto pensare, prima di parlare, Pep Guardiola, ma non lo ha fatto e ha dato il via al “verbo delle vittorie”. La tristezza lambisce la miserabilità e distrugge ogni suggestione da sogno fabbricato da uno degli sport più amati, se non il più amato, nel mondo. “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo… tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile la legge”, si scorre l’Enciclica “Gaudium et spes” e la certezza che non deve avere avuto tra i suoi lettori il tecnico catalano si fa chiara e desta malinconia. Il livello, nonostante la differenza di età e quindi di esperienza, è quello di Federico Chiesa, uno stadio esistenziale dove “Delitto e Castigo” di Fedor Dostoevskij, semmai fosse letto, verrebbe confuso poco più o poco meno come un banale rompicapo solipsistico da “settimana enigmistica”. Chiesa ha la certezza che gli sia stato tolto indebitamente il giocattolo, un giocattolo meritato sul campo e ora regalato, non si sa perché, a quei cattivoni del Milan.
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È il grido di dolore per il “grund” de “I Ragazzi della Via Paal” portato via dalla speculazione edilizia selvaggia di Budapest; è la vita feroce, secondo il Chiesa pensiero, indebitamente autorizzata a portarti via il sogno. A questo punto dell’intervista di Tuttosport, e considerato come il giornalista non si sogni lontanamente di chiederselo e chiederlo, ti chiedi tu se il giocatore juventino, tra i suoi tanti trastulli da tempo libero, abbia anche quello di leggere talvolta qualche notizia proveniente dalla stampa. Ti chiedi se sia veramente conscio del perché il martedì o il mercoledì sera invece di stare a correre su un mercato di calcio, sia seduto sul divano di casa a giocare alla PlayStation. Vive forse fuori dal mondo, Federico Chiesa? Da quando la Juventus è stata messa sotto inchiesta, e poi punita con l’esclusione dalle coppe europee a causa delle “plusvalenze fittizie”, non ho mai mancato di ricordare, in ogni contesto o commento scritto, come puntare il dito solo contro i bianconeri fosse ingiusto e forse anche sospetto di trame svolte dietro le persiane di cui non avremo mai contezza, ma detto questo la Juventus è certamente colpevole di tutto quanto è stata accusata. In epoca di “fairplay finanziario” non sarebbe male avere presente il fatto come aggirarlo sia una grave infrazione della lealtà sportiva, delle anche più banali regole della corretta concorrenza, della più semplice comunicazione finanziaria chiara data al mercato. Forse, e dico forse, un anno senza le coppe europee potrebbe dare a qualcuno l’idea di aver preso la cosa alla stessa stregua di un furto della barattolo della marmellata dalla credenza della cucina di una madre amorevole o del non aver fatto i compiti di scuola. Eh sì, la pena inflitta al club di “Exor” pare un essere mandato a letto senza cena o essere confinato dietro la lavagna del libro “Cuore”. E qui il concetto di pena commisurata alla gravità del reato traballa. L’approccio troppo filosofico rischia la disattenzione di Chiesa, visto come “rosicare” resta il massimo del suo intreccio linguistico. Avrebbe potuto dire “mi perplime un po’ guardare le partite di Champions”, ma tale terminologia avrebbe presupposto un pensiero evidentemente assente nel giocatore bianconero, intristito dal vedere giocare la massima competizione europea dal Milan “arrivato quinto”. “Io non ragiono con l’ottica del tifoso. Il tifoso è chi conta i punti. Io mi emoziono. Io cerco l’emozione nell’atto” provò a spiegare una volta il genio di Carmelo Bene, insondabile e inarrivabile per l’odierna contemporaneità protesa a guardare solo al risultato raggiunto, e non sul come lo si è raggiunto. È rimasto, e nemmeno sempre, il diritto a ricordarcelo, e quando lo fa Federico Chiesa rimane attonito, continuando a ripetere a mo’ di disco rotto il suo essere arrivato prima del Milan. Nel linguaggio c’è sempre una implicazione a coinvolgere l’universo intero, la sua chiamata alle armi ad essere testimone di una storia che lo coinvolge in quanto lascerà comunque una traccia, seppur a tratti vuota e nella patetica e surreale difesa del diritto di “proprietà privata intoccabile” delle proprie azioni. Ha ascoltato il suo linguaggio, Guardiola, ma non le parole chiare provenienti dal mondo, alcune dal tratto davvero rivoluzionario.
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Temo stia sfuggendo la portata giuridico/filosofica dell’azione della magistratura spagnola contro il Barcellona ed Enriquez Negreira, essa ha trasformato da possibile reato sportivo a possibile reato penale il contratto di “consulenze” intercorso per anni tra il club catalano e l’ex vicepresidente degli arbitri spagnoli. La motivazione? “La commissione tecnica di arbitraggio dipende dalla Federcalcio di Spagna, quindi Enriquez Negreira, all’epoca dei fatti, esercitava funzioni pubbliche”. Esercitava funzioni pubbliche… su queste parole abbraccio idealmente Anthony Weatherill, certo di quanto sarebbe stato felice, lui che ha lottato per tutta la vita per i valori originari del calcio, di una istituzione del diritto capace di mettere nero su bianco, attraverso la formulazione di una accusa, il criterio di “un calcio bene comune” e quindi protetto da un esercizio di una funzione pubblica a rappresentare sempre e comunque lo Stato, ovvero tutti noi. Il rischio concreto è il fallimento dei “blaugrana”, a testimonianza, ancora una volta, di quanto tutto nel nostro continente stia cospirando contro il bene comune, di quanto ciò stia avvenendo sotto i nostri occhi spesso indifferenti. “Abbiamo vinto perché abbiamo fatto meglio di altri” dice Guardiola, convinto come il centro della questione siano le sue vittorie, che potrebbero anche essere state legittime (lo si vedrà), ma non l’oggetto del contendere. Vediamo se ci riesce a capire Pep… il tuo Stato di Diritto (la Spagna) sta affermando in modo inequivocabile che con il calcio non si può far di tutto. Vedo di essere più chiaro, affinché tu possa capire: ricordi il detto “la moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma anche sembrare onesta”? Ecco: questo è il centro della questione, non le tue vittorie. Anthony Weatherill per questo ha combattuto, lavorando per l’onore del calcio, per il suo essere manifesto culturale della vita degli europei, per restituirlo alla gente come suo legittimo patrimonio. Lo ha fatto in ogni luogo che contasse: dalla politica, alle istituzioni, all’imprenditoria. Oggi la magistratura spagnola gli da ragione, con una finezza del diritto gravida di speranze e di riflessioni positive sul nostro sport. Perché il calcio è il nostro sport. Kobe Bryant, in una intervista, aveva detto come il calcio gli sembrasse più di uno sport, qualcosa di analogo alla religione. L’iperbole di uno dei più grandi cestisti esistiti ci può stare, personalmente ho sempre visto questo gioco alla stessa stregua di un miracolo salvifico. Nati per essere liberi, per il gioco e per il miracolo. Le vittorie, marxianamente e cristianamente, sono solo la sovrastruttura dei vanitosi e a volte coscienza sfregiata.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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