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In questo senso fa sorridere, ma non mi sorprende più, l’ultima filippica di Aurelio De Laurentiis critico verso lo Stato italiano che non concede “una base di libertà” al calcio nostrano per fare i suoi legittimi affari. Stiamo parlando di uno a cui questo Stato sta consentendo di avere la proprietà di due club calcistici, l’impunità per una delle plusvalenze fittizie più comiche e scandalose della storia del calcio (quella dell’arrivo di Victor Osimhen all’ombra del Vesuvio), l’opacità, che non dovrebbe essere consentita nel mondo dello sport, di far detenere il 90% della proprietà del Napoli ad una “fiduciaria”: si sa, con certi soggetti passare da un dito, al braccio e al tutto il corpo è questione di un attimo, di disinvoltura e di ottime relazioni, tutte qualità possedute dall’Aurelio nazionale (soprattutto l’attimo: lo sa cogliere come pochi). “Bisogna adoperare i propri principi nelle grandi cose, nelle piccole basta la misericordia”, scrive Albert Camus, grande appassionato di calcio, nel lontano 1937, ma confesso come di fronte a certi colpi di mano la misericordia vacilla anche dentro l’anima di un cattolico quale io sono. Quando nel 2020 il PSG si giocò la finale di “Champions League” contro il Bayern di Monaco, aveva un monte salari di 91 milioni di euro in più rispetto ai tedeschi. Erano stati più bravi? Avevano all’ufficio marketing una progenie del “Mago Merlino”? I bavaresi al loro confronto parevano il Celtic di Jock Stein, pieno di ragazzi di belle speranze quasi tutti cresciuti nei quartieri cattolici di Glasgow, o della “Greater Glasgow”, al cospetto della “Grande Inter” di Sandro Mazzola e Luisito Suarez nella finale di Coppa dei Campioni del 25 maggio del 25 maggio 1967 a Lisbona. Quella finale l’ha vinta il Bayern, a dimostrazione di come il calcio sia una di quelle dimensioni umane dove è possibile rintracciare l’esistenza di una misteriosa giustizia capace di andare oltre i maneggi delle persone. “Pensa agli affari come un gioco avvincente e tieni il punteggio con i soldi”, ha detto in uno dei suoi tanti “speech” Bill Gates (sì proprio quello che dopo aver raggiunto una posizione scandalosamente dominante nei “software”, ora si sta dedicando a comprare quanto più terreno coltivabile possibile), ed è a questo principio che si deve essere attenuto Verratti nell’atto di prendere due piccioni con una fava: guadagnare scandalosamente bene in soli tre anni e compiacere il suo complice elevato a demiurgo del calcio europeo da un altro complice, il presidente Uefa Aleksander Ceferin.
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Scegliere di passare alla cassa piuttosto che alla storia da più agi e meno problemi, e fa dimenticare i sogni avuti in gioventù, le tante parole spese con gli amici sulla necessità di un mondo migliore. Perché il mondo migliore lo desideri solo quando pensi di non averlo mai, ma tutto cambia quanto il tuo florido conto in banca ti comunica come il mondo non cambierà mai, però la tua vita sì. La immagino la voce avvolgente di Al Khelaifi e la sua logica stringente: “Marco, che vuoi finire come Garrincha? Il Botafogo gli ha concesso una statua nella sua sede, ma le statue sono per i morti e quindi non le puoi nemmeno vedere, e nemmeno su qualche possibile via a te eventualmente dedicata potrai passeggiare. Ah, guarda che Garrincha è morto povero e qualche anno fa pure i suoi resti mortali sono stati trafugati da un cimitero più povero di lui. E aveva vinto due mondiali. Te lo dico da amico: quando tutti si dimenticheranno di te, e stai certo che lo faranno, il tuo conto in banca continuerà a ricordarti senza sosta”. Povero Verratti, deve essere rimasto frastornato fino al disorientamento dalla velocità con cui gli undici anni parigini gli si stavano sgretolandosi davanti, e forse gli sarebbero stati utili le parole di Paul Newman nel “Colore dei Soldi”: “devi sempre sapere quando puoi dire sì e quando devi dire no, e il punto vincente di ogni buon giocatore, e dovresti dire no perché la posta è troppo alta e io sono una incognita”. Lasciamo perdere l’incognito, esso è figlio di un mondo popolato dalle parole degli scrittori russi, convinti dell’esistenza di un delitto e di un castigo, “io so solo tirare calci ad un pallone, e stai certo come l’unico calcio che non tirerò mai è quello alla fortuna. E visto che siamo tra noi voglio proprio dirtelo: Alessandro Buongiorno è un pirla, Graziano Pellè un precursore e una ispirazione”. Forse non sono così inspiegabili le scelte di Marco Verratti e Gabri Veiga; sono figlie di un mondo andatosi a collocare, nel tempo, nella parte opposta rispetto a Leonida e ai trecento spartani caduti alle Termopili in ossequio alle leggi di Sparta. L’ossequio alle leggi della storia calcio si sono perse probabilmente per sempre o forse un giorno rinasceranno, chissà. Per il momento ciò che rimane è la resa di un ragazzo di trentadue anni incapace di essere più grande del suo conto in banca. E’ finito il tempo in cui, per dirla all’Osvaldo Soriano, le storie di calcio erano “risate e pianti, pene ed esaltazioni”, ora siamo nel tempo di Al Khelaifi e della resa incondizionata. “Un tempo-direbbe il grande Soriano - totalitario e fascista che induce gli imbecilli a credersi molto furbi”. Che volete che vi dica… speriamo ci sia un altro tempo.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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