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Calcio estetico o calcio utile?

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Torna un nuovo appuntamento di "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“La bellezza è bruttezza dominata”

Jean Rostand

Il calcio estivo, lo si deve riconoscere, è abbastanza brutto, una sorta di ritorno a scuola dove sui banchi gli studenti sono disorientati dal ricordo del dolce ozio estivo trascorso e faticano a ritrovare il senso dell’irreggimentazione figlia del necessario espletamento di un dovere. Le gambe dei calciatori sono “imballate” da una preparazione fisica ancora in corso, i movimenti sono a volte fallaci perché ancora da interiorizzare, i gesti tecnici poco belli a vedersi perché privi della consuetudine quotidiana a ripetersi, e poi manca il pathos della partita importante e tutto pare come una “reunion” di beach volley fatta in qualche spiaggia alla moda da postare in selfie a caccia di like.

In questo periodo forse è ridondante o asimmetrico con il “momento” mettersi a parlare di bellezza nel calcio, di quanto sia più avvincente l’estetica o l’utilità, ma tuttavia l’argomento è talmente penetrato finanche nelle chiacchiere da bar (reale o digitale che sia) da valere la pena spenderci qualche considerazione prima di ributtarsi tutti nelle dinamiche del campionato. Verrebbe da dire, parafrasando la scrittura sacra, che in principio fu Arrigo Sacchi con i suoi leit motiv “gli italiani vogliono fare sempre i furbi e guardano solo il risultato” e “vincere, convincere, divertire”, abbracciando così il metodo adottato da molti italiani di successo, ovvero la regola aurea di criticare sempre il Paese per ergersi a demiurgo di una prossima palingenesi necessaria.

Niente è stato più italiano del tecnico di Fusignano, pronto a mostrare i muscoli quando qualcuno (in questo caso Silvio Berlusconi) lo dopa del denaro necessario per comprare qualsiasi cosa di talento si muova su un prato verde, pronto a ritirarsi (“soffro di stress, mi divora il tarlo da perfezionista”, disse in una intervista a “La Repubblica”, acconciata più per giustificarne i fallimenti che per sottolinearne i successi. È il principio che il quotidiano di John Elkann applica da sempre agli amici) dall’agone quando vede in lontananza una mala parata (Luciano Spalletti è uno che gli assomiglia molto, da questo punto di vista).

Sacchi è un’esteta, e come tutti gli esteti ha dei problemi ad accettare l’inclusività, a vedere il mondo come una “parabola di talenti diversi” e con lo stesso diritto di cittadinanza. L’esteta spaccia per bellezza una fallacia psicologica (una eccessiva ridondanza di sé), che lo conduce dal suo narcisismo ad una visione totalitaria dell’esistenza. Siamo agli antipodi della constituens della natura dello sport, nato per essere inclusivo e, soprattutto il calcio, per rispettare la trasversalità sociale.

L’estetica fa a pugni con lo sport perché cavalca il pregiudizio di fronte al “brutto”, ribadendo con una certa arroganza il suo quasi dovere a non esistere. Il “brutto” se proprio insiste nel voler rimanere in vita, quantomeno dovrebbe vergognarsi e mettersi da parte. L’esteta ha la necessità insopprimibile di sentirsi genio, e se gli altri non lo riconoscono è sicuramente un loro problema, come sottolinea quest’altra “perla” di Sacchi: “difendo le mie idee non convenzionali in un mondo retrodatato”.

Se non si trova uno sceicco (vero Guardiola?) o un Berlusconi a riempire di soldi e potenza la sua estetica, allora non l’Italia ma è addirittura il mondo colpevole di arrancare al cospetto del suo genio. Siamo tutti in ritardo rispetto all’esteta, che tra le sue ansie ha anche quella di voler anticipare tutti. Si cerca l’estetica perché si vuole sedurre e la seduzione è qualcosa che va al di là della semplice voglia di vincere: si vuole dominare, asfaltare, annientare l’avversario. Come ciò possa essere confuso con la bellezza nel calcio è un mistero da affidare a numerose sedute di psicoanalisi, e non solo.

Il calcio è stato impossessato da un manierismo estetico a partire dagli anni 80 del secolo scorso, quando la televisione, con una nuova figura di guru enfatico ed estasiato fino all’iperbole a commentare le partite, comincia ad imporre stilemi per assecondare la saldatura tra l’estetica e il marketing in nome di un totalitarismo che non ammette discussioni. In nome di questo nuovo scenario imposto, la Nazionale italiana non deve più adeguare le sue partite partendo dalla difesa, ma si deve convertire all’idea di potenza del possesso palla e alla sequela di passaggi infiniti.

La seduzione, stato narcisistico di chi è convinto di avere notevoli mezzi estetici (fossero fisici o mentali), diventa così la stazione finale alla quale ogni nostro giudizio e gusto deve approdare, in tal modo facendo diventare lo sport più seguito al mondo una forma di spettacolo piuttosto che un avvenimento agonistico. E’ stato un lavoro lento e martellante, simile alla goccia d’acqua che scava nella roccia, ma il passaggio si può dire quasi compiuto. Il tifoso si è globalizzato grazie al concetto di marchio da multinazionale, e l’obiettivo di far accettare una serie di occasioni, le partite di calcio, per far crescere consumi e ricavi è stato uno dei più grandi successi del neoliberismo impostosi nel mondo. Costretti a vagabondare nella fantasia narcisista dell’esteta, temo non ci si sia accorti di non essere più protagonisti della produzione di un evento, ma subordinati alla logica della finanza volenterosa di creare bisogni immaginari e recinti elitari parossistici per farci ritenere sul serio di stare assistendo ad una evoluzione del gioco.

Ma se il “bello è lo splendore del vero”(Platone), cosa ci potrà essere in comune tra l’esistenzialismo da tauromachia degli spagnoli e l’arte degli italiani di arrangiarsi che fornisce lampi di genio ad intermittenza? Abbracciare la “difesa” nel calcio è sempre stato, per gli italiani, un’attesa del momento migliore per attaccare, per esprimere un genio che, quando si sprigiona (e prima o poi si sprigiona), diventa incontenibile (chiedere alla nazionale brasiliana dei quarti finali mondiali del 1982). È un modo di giocare, il nostro, lontano da una qualunque “Plaza de Toros” iberica, ma rispettosa della nostra tradizione, del nostro animus, del nostro talento. Un modo di giocare che ha fatto fiorire fuoriclasse a profusione, quattro titoli mondiali, un titolo olimpico e due titoli europei.

Ma se la questione diventa non più la vittoria e l’epica, ma un canone estetico universale per accontentare una potenziale platea globale sempre più divisa in chi ha molto e chi ha poco, allora non siamo più di fronte al calcio ma a qualcosa difficile ancora da definire. Certamente, però, di tutto si sta parlando fuorché di bellezza. “La bellezza è un enigma… la bellezza, nel mondo, ha il suo doppio… anche i nichilisti amano la bellezza”, scrive Fedor Dostoevskij ne “I Demoni”, ma è importante individuare quale bellezza salverà il mondo, per non ritrovarsi tutti improvvisamente nelle mani di ricchi arabi che, seguendo le logiche neoliberiste da sempre condannate da varie “jihad” vere o presunte, stanno destrutturando ciò che rimane da destrutturare nel calcio del Vecchio Continente, un Vecchio Continente addomesticato nel ricercare la fama invece del talento, il marchio piuttosto che la sostanza, l’estetica a scapito della bellezza.

Aver fatto diventare gli allenatori degli epigoni di Vincent Van Gogh è stato il mezzo per massificarlo in nome di interessi chiari e meno chiari; aver assecondato e canalizzato, per suo tramite (del calcio) quella quota di narcisismo (piccola o grande che sia) presente in ognuno di noi, è stato come mettere in condizione degli apprendisti stregoni ancora in fasce di giudicare il mistero. Parlare di bellezza vuol dire prendersi sulle spalle ogni cosa e il suo contrario, e il calcio diventa bello, fino ad entrare nel mito e nella memoria collettiva, quando questa contraddizione viene vissuta pienamente e senza finzione, figlia di virtù e limiti.

L’esistenza non è il delirio folle della ricerca di una perfezione inesistente, se non nella testa del povero esteta, ma un compendio di forza e fragilità. Il calcio è bello ed è amato perché anche i “brutti” possono vincere, divenendo così manifesto di possibilità per tutti. Ma proprio per tutti. Se il calcio perde questo, sarà perso per sempre. Mettiamo seduti gli esteti davanti al dottor Freud, e auguriamoci rimangano il più a lungo possibile a parlare con lui. Noi, nel mentre, godiamoci la partita della nostra squadra del cuore, con tutti i suoi limiti e con tutte le sue speranze. Buon prossimo campionato a tutti.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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