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Novak Djokovic e lo sguardo del lupo

Novak Djokovic e lo sguardo del lupo - immagine 1
Torna un nuovo appuntamento con "Loquor" la rubrica di Carmelo Pennisi

“Il tennis: riflessi complicati,  spirito che ridiviene velocità”

Jean Prevost

 

Se entri nel “Centre Court” di Wimbledon alle ore 14 di una delle domeniche di luglio concesse dalla storia per giocarsi il destino… se cammini con passo lento per sentire e gustare sotto i piedi quell’erba fresca e curata sognata sin da bambino… se volgi lo sguardo verso le gradinate e scorri, qua e là in ordine sparso, i volti di chi ti ha preceduto nell’incontro di quel giorno… se il cuore non cede e l’anima non si sbriciola all’atto di “servire” il primo “quindici” del tuo appuntamento fatale… allora sì che meriti di essere in quel momento del destino, feroce nel ricordati che tutto si avviluppa e si eclissa, anche se dovessi illuminare improvvisamente la selva oscura con lampi di classe e riflessi di genio. La finale dell’appuntamento sportivo più iconico del mondo, dove il tempo si ferma e riparte verso un nuovo tempo, è il momento in cui la Storia si attende a riflettere, titubante nel tirare i suoi dadi sul tavolo verde della vita. Novak Djokovic ha vissuto ben otto momenti così e non ha mai tremato, degno successore di campioni di uno sport incredibile nell’intrecciare le sue vicende con appuntamenti controversi  dello scorrere umano. Chissà quanti pensieri attraversano un giocatore mentre la pallina va su e giù dal campo, compulsando tutte le opzioni possibili sulla direzione da prendere. Nole avrà forse ricordato gli occhi del lupo incontrato in un bosco a dieci anni, prima di giocarsi il  “quindici” decisivo per aggiudicarsi nel 2011 il suo primo Wimbledon? “Ci siamo guardati per dieci secondi, i più lunghi della mia vita; poi lui ha piegato a sinistra e se ne è andato… è stata una connessione d’anima e di spirito che non mi ha più abbandonato”, ha confessato il campione serbo in una bella intervista rilasciata al Corriere della Sera. La scelta di rifarsi ad un ricordo fanciullesco diventato ancestrale, come incipit della sua chiacchierata con Aldo Cazzullo, definisce di che pasta siano fatti i fuoriclasse del tennis, poco inclini a rendere omaggio alla dea-spettacolo protesa a pretendere la “cancel culture” di tutto ciò che ha reso epico lo sport moderno. Djokovic ha voglia di parlare, non tanto per difendersi dalla calunnia di essere un “no-vax” militante, ma tanto per sottolineare, ora che finalmente si può fare, cosa voglia dire essere persone libere, ovvero essere messi nelle condizioni di poter scegliere. “E’ un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere”, e si capisce l’intenzione di tornare a guardare dritto negli occhi il lupo, di essere pronto a pagare le conseguenze della sfida. E’ la capacità di pagare un prezzo a definirci; non ossessivamente inclini alla voluttà di praticare il compiacimento, arriva il giorno in cui possiamo dimostrare il motivo reale per cui si viene al mondo, che non è il desiderio o lo stordimento da eccessivo godimento, ma la capacità di prendere la decisione ritenuta  giusta smentendo la genesi del mondo che ci vede facili prede dal raggiro di un serpente. Nel luglio del 1937 Gottfried Von Cramm sta giocando, proprio sul Centrale di Wimbledon, il “quindici” decisivo del singolare tra Germania e Stati Uniti, con in palio la via per vincere l’agognata Coppa Davis. Sarebbe la prima volta per la Germania, sarebbe utile per Von Cramm vincerla e compiacere così Adolf Hitler, desideroso di fargli pagare in qualche modo la sua omosessualità, protetta fino a quel momento dal suo essere uno degli sportivi più famosi di Germania e del mondo. Il Fuhrer lo chiama al telefono, così si racconta, prima di scendere in campo e si raccomanda di non fallire l’appuntamento per la gloria del Reich Millenario. La risposta di uno dei più grandi tennisti di sempre fu laconica: “ja, mein Fuhrer”. Probabilmente con la sua telefonata il dittatore tedesco vuole assicurarsi che Von Cramm non faccia un altro colpo di testa come quello di un doppio decisivo, sempre in Coppa Davis e sempre contro gli Stati Uniti, dove rinuncia al “quindici” determinante sotto forma di una palla giudicata fuori, denunciando, tra lo stupore generale, di esserne stato sfiorato. In Germania la cosa viene presa come un tradimento incomprensibile, Von Cramm, al contrario, ritiene di aver reso onore al suo Paese e ad un gioco amato sopra ogni cosa. Il tennis è intimo e ampio, perché tutto è religioso silenzio e boato improvviso, ed è sempre l’avversità il compagno di viaggio con cui fare i conti. Il dramma lo avverti persino nel tenue respiro dello spettatore che sembra esserti seduto accanto mentre stai decidendo, nella frazione di secondo in cui la pallina sta scendendo dopo il lancio in aria, se colpirla in “kick” o con lo “slice”: sono gli attimi fatali dello sguardo ancestrale del lupo, in cui paura e necessità di una decisione giungono contemporaneamente allo stesso crocevia. “Non sono no vax – continua Djokovic nella sua conversazione con Cazzullo -, e non ho mai detto in vita mia di esserlo. E non sono neppure pro vax. Sono pro choice, difendo la libertà di scelta, un diritto fondamentale dell’uomo”. Si ritorna sul centrale di Wimbledon, dove vincere sarebbe facile quando nessuno si è accorto che la pallina appena finita fuori ti ha sfiorato. Von Cramm traditore della patria, Djokovic traditore  della salute pubblica. Gli spettatori, in silenzio, osservano e attendono. A volte basterebbe seguire l’onda e fare ciò che essa si attende, in regalo si otterrebbe una vita ancora più comoda, una robusta moltiplicazione di onori, inclusione nei circoli che contano con tessera di iscrizione senza data di scadenza, tanto di quel denaro da convincerti di essere venuto in possesso della “Cornucopia”. Tutto questo lo sai fin troppo bene mentre stai andando verso il giudice di sedia per rivelargli di aver sfiorato la pallina.“Sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo. Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio opposto al mainstream; e lo sono diventato”. In un campo da tennis sei da solo, hai la pressione mediatica di una importante partita di calcio o della NFL, ma non sei il prolungamento dei desideri e delle angosce dei tuoi tifosi, non hai compagni di squadra, non hai un contratto in cui uno stipendio ti dice esattamente cosa fare, non hai un allenatore a decidere per te. Il tennis non è una metafora della vita di chi conta il cumulo le bollette da pagare, le rate di un prestito a consumo o di un mutuo, l’angoscia della precarietà del lavoro. Esso non ha tifosi, non ha febbre da consumare, si attende il lancio in aria della pallina come altro da sé e il religioso silenzio ad accompagnarlo è sintomo di ammirazione della bellezza che verrà. C’è bellezza ma non c’è estetica, ecco perché lo sport moderno planetario più antico del mondo non sarà mai una bolla da consumare e resterà sempre e solo un gioco, dove la bellezza è la conseguenza di una scelta rivolta verso l’armonia, una assoluta ricerca di un senso etico anche quando il mondo è immerso nella massificazione acritica raccontata da George Orwell nel suo 1984. Gli appassionati di tennis, quelli veri e non quei “miles gloriosus” provenienti dai bassifondi della cultura sociale italiana contemporanea con il bisogno di sfoggiare un buffo e onanistico delirio sciovinista, attendono con fiducia che i loro campioni onorino la storia di uno sport dove i suoi campioni hanno saputo compiere scelte coraggiose, come quando Adriano Panatta e Paolo Bertolucci scelsero di scendere a giocare nel catino di Santiago del Cile, nel doppio decisivo di una finale di Coppa Davis, con le magliette rosse per dire al dittatore Augusto Pinochet, e al mondo, che il sangue versato ha memoria, e soprattutto ha lo stesso colore del fazzoletto indossato dalle donne cilene alla ricerca dei loro cari “desaparecidos”. I tennisti scelgono, magari sbagliano, ma non li “inquadri”. Nole, per la sua posizione sul vaccino, ha perso contratti pubblicitari, appuntamenti in tornei che lo avrebbero reso inarrivabile nel numero di vittorie in uno “Slam”, ha dovuto subire il ludibrio mondiale per una intervista rilasciata alla “BBC” e che oggi sappiamo essere stata manipolata in modo imbarazzante. La ferita non si rimarginerà mai, ma per uno con la forza di allenarsi anche quando le bombe della “NATO” cadevano su Belgrado, non smarrire il senso delle cose ha un carattere prioritario, e soprattutto perdere è la giusta semina della vittoria. “Se non hai paura di perdere, non meriti di vincere”, disse un giorno Bjorn Borg, e forse è proprio il rifiuto di affrontare la paura il segno più evidente della crisi di un Vecchio Continente, ormai troppo vecchio e pavido per chiedersi in quale bosco della storia si sia perduto. Per Federico Buffa il tennis è lo sport “più complesso a livello mentale. Una partita può cambiare in un istante. Il pendolo oscilla in modo molto più rapido rispetto a tutti gli altri avvenimenti agonistici”. La pallina batte più volte per terra e poi va in aria. Il pubblico aspetta, in religioso silenzio, il suono dell’impatto sulle corde. Il “mulinello” compiuto dalla racchetta  ha quasi completato il suo percorso. Tutti e due i piedi sono sospesi nel vuoto e a breve ritoccheranno terra. A quel punto sarai di fronte lo sguardo del lupo, e niente e nessuno ti potrà mai portare via quel momento. Esso è sacro.

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