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Maurizio Sarri: il Parvenu

TURIN, ITALY - JULY 04: Head Coach of Juventus Maurizio Sarri shouts to his players during the Serie A match between Juventus and Torino FC at Allianz Stadium on July 04, 2020 in Turin, Italy. (Photo by Daniele Badolato - Juventus FC/Juventus FC via Getty Images)

Loquor / Torna l'appuntamento con Anthony Weatherill, che cita Heywood Hale Brown: “Lo sport non costruisce la personalità. La rivela”. Puntata dedicata all'ormai ex allenatore della Juventus

Anthony Weatherill

"“Lo sport non costruisce la

personalità. La rivela”.

Heywood Hale Brown

Nell’esonero di Maurizio Sarri c’è un riaffermarsi di qualcosa di già visto con Gian Piero Gasperini nel 2011, quando il tecnico di Grugliasco fu esonerato dall’Inter dopo appena quattro partite di campionato. La sensazione è quella che ai rappresentanti della grande borghesia italiana, della quale Massimo Moratti e Andrea Agnelli sono autorevoli rappresentanti, faccia un po’ ribrezzo dare una carica di prestigio, come oggettivamente sono le panchine di Inter e Juventus, a gente fattasi da sola in una lunga e paziente gavetta. I parvenu non sono mai piaciuti alla razza padrona italiana, che dal secondo dopoguerra in poi si è andata ad insediare nel posto della scala sociale un tempo riservato all’aristocrazia regia. Magari per un istante cedono al fascino del povero proletario e gli aprono le porte del castello, ma è, appunto, un attimo seguito da un istantaneo pentimento. Ed ecco allora come dal giorno dopo della maturata contrizione, questi rappresentanti di una nuova aristocrazia basata non si sa su quali valori e su quale etica, adoperarsi con tutto il loro impegno e con tutte le loro facoltà mentali a cercare un casus belli per farsi fuori la debolezza di un momento.

Sarri, con il suo fare da filosofo esistenzialista di una qualunque “Casa del Popolo” toscana e con la sua postura impossibile da armonizzare con le raffinate cuciture del “Trussardi style” a cui la Juve da qualche anno a questa parte ha affidato la parte da “cerimonia” delle sue divise sociali, è sembrato subito anni luce lontano dal gusto elitario di Andrea Agnelli. Uno che, se proprio deve fare una scommessa, preferisce di gran lunga farla con l’archetipo da “country club” o da circolo del “Rotary”. Sarri, con quei suoi denti anneriti dal fumo e con quel suo rimarcare l’essere giunto il momento di fare un po’ di soldi alla famiglia dopo tanti sacrifici, sembra più, agl’occhi dell’aristocratico Agnelli, una brutta Cenerentola avvinghiata al tavolo del salone principale del castello, dopo essere per anni stata negli anfratti delle cucine reali. Scegliere Andrea Pirlo deve essere stato, per il figlio di Umberto, un riappropriarsi di un territorio di casta, di poter parlare con uno conscio della necessità di cambiarsi abito per la diversità delle occasioni sociali. Pirlo sa come abbeverarsi da una coppa di champagne, e il bianco lucente dei suoi denti sono quelli di uno curato da principe fin dall’infanzia.

Si è capito di un Sarri arrivato al termine dell’avventura bianconera, quando nelle conferenze stampa i giornalisti del “Gruppo Gedi”, il potente conglomerato editoriale saldamente in mano alla famiglia Agnelli, hanno cominciato a picchiare duro con domande quantomeno fintamente immemori di come funzionino le cose alla Juventus. Infatti non si è mai visto un club di vertice giocare un’intera stagione senza un attaccante di assoluto livello di gol e rendimento, ma per il campionato appena concluso la triade Paratici, Agnelli e Nedved, chissà perché, aveva deciso, contro il parere del parvenu toscano, come di un attaccante non ci fosse proprio bisogno. Lasciando il Chelsea, Sarri aveva avuto rassicurazioni su alcune sue richieste per la campagna acquisti, tipo quella di un centrocampista che avrebbe dovuto dare luce e organizzazione al nuovo gioco bianconero. Ma non bisogna avere per forza studiato Karl Marx, per capire come gli aristocratici hanno il vizio costante di raggirare con false o vane promesse le classi sottostanti, le quali sovente si accorgono del raggiro solo al suo compimento. Fa impressione quando un concetto elitario irrompe nel calcio, perché l’elitarismo, per definizione, non avrebbe dovuto trovare spazio in uno sport nato per soddisfare la naturale tendenza umana nel riconoscersi in qualcosa, per dare senso e provare amore incondizionato. Il calcio nasce per essere espressione di un grido socio/culturale insopprimibile da parte di archetipi psicologici ben definiti, ecco perché, ad esempio, un tifoso granata non potrebbe mai svegliarsi un giorno e scoprirsi juventino. Essere tifoso di una squadra vuol dire far parte di una comunità di uguali in spirito e desiderio, questione a livello cosmologico assai lontana da un costruzione elitaria dell’esistenza. La squadra di calcio ha qualche analogia con il debito pubblico, ovvero uno di quei momenti in cui la collettività entra in possesso di un po’ della ricchezza nazionale.

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In questa rubrica più volte si è posta l’attenzione sul cambiamento di pelle imposto dalle élite finanziarie allo sport più seguito al mondo, trasformandolo da fenomeno comunitario, quindi a base democratica, a macchina di raccolta di maggior profitto possibile e di controllo delle emozioni, spesso fatte convergere in un unico progetto gestionale di controllo dell’empatia. Le élite finanziarie, che nel corso del tempo hanno creato un reticolo di vassalli, valvassori e valvassini di medioevale memoria, si sono impossessati anche del calcio, perché da sempre lo scopo del potere, se non è arginato dalla politica, è quello di accumulare più risorse possibili sia materiali che simboliche. Aver sottratto il calcio al controllo popolare stratificato, quindi, è stata una naturale conseguenza, non appena le élite si sono accorte di quanto significato simbolico questo sport avesse assunto tra le masse popolari. E quando le élite occupano uno spazio, generalmente hanno il problema di scegliere le persone a cui delegare la messinscena dello spazio stesso. Devono essere persone facilmente includibili, nell’immaginario collettivo, nell’archetipo aristocratico universalmente accettato. Attorno ad essi deve essere presente l’aurea giusta, perché il vassallo deve avere sempre qualcosa di estremamente visibile riconducibile al suo “signore”.

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Lo sport è nato, sin dai tempi antichi, per migliorare l’uomo, in un’idea di dare alla competizione solo un senso di ricerca dell’ammirazione generale per uno sforzo compiuto nel tentativo di dare vita a un momento di ricerca della felicità, ponendo gli uomini di fronte ad una speranza da far trasmigrare con un effetto domino in ogni attività quotidiana. È capitato così di vedere, grazie allo sport, figli di minatori ergersi ad icone del riscatto popolare, ribadendo una verità della storia contemporanea prima dell’avvento dei disgraziati tempi attuali, e cioè che non tutti gli uomini possono ovviamente essere uguali per nascita e per possibilità di partenza, ma che uguali possono e devono essere le possibilità di speranza. La politica moderna, fino al suo tramonto alla fine degli settanta del secolo scorso, aveva dato questo orizzonte. Ecco perché il Grande Torino, Fausto Coppi, Tazio Nuvolari, la Ferrari più che un’idea egemonica di una elite tesa a perpetuarsi, erano stati la rappresentazione di una rinascita nazionale. Di una speranza uguale per tutti, che fatalmente migliora.

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Vorrei mettere in guardia il lettore da considerare questi ragionamenti semplicemente un artifizio intellettuale generati con la complicità della calura agostana, quindi noiosi e poco pratici. Definire quale è lo stato attuale del rapporto tra il potere finanziario delle élite e lo sport, è una delle urgenze per individuare la qualità auspicata per il nostro futuro. Forse Andrea Pirlo ha le stimmate del grande allenatore, e di certo il futuro su questo emetterà la sua sentenza, ma la sensazione come Andrea Agnelli abbia scelto uno stile di casta più che una sostanza, rimane forte. Rimane lo sconforto come in Italia, anche nello sport, si continuino a mandare segnali di cattiva gestione del potere che, ricordo, deve essere anche e soprattutto un fatto di responsabilità verso una comunità, esercizio di responsabilità che non può prescindere dall’etica. Tornare a vedere in un prossimo futuro Maurizio Sarri fuori da un completo di Trussardi, è l’unica consolazione rimasta dalla surreale vicenda di un tecnico esonerato dopo aver vinto un campionato; non è poco vedere una persona riappropriarsi della sua identità. Ma bisogna stare attenti a non considerare il tecnico toscano completamente innocente, perché accettando di andare alla Juve, è stato aver messo per un attimo la sua anima in vendita. Confondere questo con il sano professionismo è l’indice di uno sfascio di un tempo pronto sempre a trovare una buona scusa a giustificazione per ogni ambizione. “Darei mille libri per poter correre veloce come te” ha scritto William Shakespeare, e forse a questo moto dell’animo del grande “Bardo” deve aver pensato Pep Guardiola dichiarando: “Questa è la bellezza dello sport. A volte ridi, a volte piangi”. Shakespeare e Guardiola parlano di sentimenti e di empatia, sarebbe interessante individuare, prima o poi, di cosa mai parli Andrea Agnelli. Per il bene del calcio, e non solo.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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