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La caduta di Andrea Agnelli

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Torna un nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica di Carmelo Pennisi: "Chiamarsi Agnelli ed essere stati preferiti da un cognome francese per dirigere la baracca non deve essere stato piacevole..."

Carmelo Pennisi

“farsi aurei prima

                                                                                         di cadere”.

Maura Del Serra

 

“La verità è che mi dispiace per loro (quelli della SuperLega) perché hanno dimostrato più volte di non capire il calcio e il suo ecosistema. Il calcio non è un contratto legale, è un contratto sociale”. Sentire Nasser Al-Kelaifi citare qualcosa a richiamare uno dei fondamenti concettuali della libertà dell’Occidente, ovvero “Il Contratto Sociale” di Jean Jacques Rosseau, deve essere stato il vero colpo al basso ventre di Andrea Agnelli, mentre tutto il mondo gli sta crollando addosso.

Ascoltare un illustre esponente di una delle autocrazie più feroci e subdole del mondo tracciare una differenza tra legalità e legittimità sociale(una delle dispute più complesse e infiltrate di dettagli  mai in atto nella cara vecchia Europa, e che le ha permesso di stabilire in via definitiva come si debba valutare bene lo spirito di una legge prima di decidere se osservarla o meno), deve essere sembrata al figlio di Umberto una pernacchia giunta da chissà quale snodo della Storia, considerando come tra simili ci si comprenda all’istante, ivi compreso colpo di pistola sparato per colpire esattamente al cuore. I due piccioni presi con una fava dal Presidente del Paris Saint Germain sono stati lo scalpo di Andrea Agnelli (per conto di Aleksander Ceferin.

Gli amici, anzi i complici, si aiutano sempre) e l’aver sbertucciato tutto il complesso di norme, sofismi legali, dibattito sui diritti civili in corso da anni dalle nostre parti. La Storia corre ogni volta su un filo talmente sottile da procurare vertigini a guardare in basso nella voragine della sua memoria, che ogni tanto ti presenta un conto talmente salato da far sembrare il mare un semplice enorme specchio d’acqua dolce. Non è facile decodificare, e soprattutto capire, cosa ci sia realmente dietro le dimissioni dell’intero CdA della Juventus, a meno di non ritenere una cosa seria “l’atto di responsabilità” e l’assurgere a “riferimento sportivo” Massimiliano Allegri evocati da John Elkann una cosa seria e non una sequela di sberle arrivate dritto sul volto di Andrea Agnelli e sul vero cuore della questione inquadrata dal “caro” cugino: devi farti da parte, punto e basta.

Dalla scomparsa di Gianni e Umberto, e con l’arrivo della nuova generazione Agnelli/Elkann, ciclicamente i conti alla Juventus si regolano attraverso gli scandali e le vie giudiziarie, come dimenticare, infatti, l’anomala tempesta di “Calciopoli” abbattutesi nel 2006 su uno dei feudi più intoccabili dell’ultima vera famiglia potente italiana? Una tempesta dove la retrocessione in B dei bianconeri fu la parte meno importante di una vicenda che segnò la fine della famosa “triade” (Giraudo, Bettega, Moggi), evidentemente diventati assai ingombranti e invasivi per poter essere tollerati dalla Real Casa di Villar Perosa. La Juve, all’epoca, era ancora un affare troppo di famiglia. I problemi tra John e Andrea vanno avanti da un po’ di tempo, nascono sempre dissapori quando la “successione” non è stata resa chiara come l’acqua di fonte. Occorre ricordare come si siano combattute, nella Storia, guerre cruente attorno alla questione della “legittimazione”.

Chiamarsi Agnelli ed essere stati preferiti da un cognome francese per dirigere la baracca non deve essere stato piacevole, specie se sei il fratello minore di quel Giovannino destinato quasi sin dalla culla a prendere il posto di zio Gianni. Essere stato escluso a priori, finanche nella ipotesi, di poter condurre i destini della “Real Casa” dopo la sua prematura scomparsa (è stata una grande perdita la dipartita di Giovannino e non solo per gli Agnelli, ma per l’Italia intera. Ma per certe cose nel nostro Paese non c’è mai stata una sufficiente lungimiranza collettiva per comprenderle. Restiamo e resteremo convintamente schiavi del pregiudizio e del nostro “tifo”), per Andrea deve essere stata peggio di una frustata in pieno viso e la Juventus doveva essere un tentativo non per dimenticare l’umiliazione (per dimenticarle, certe cose, bisognerebbe giungere ad una maturità esistenziale e spirituale in genere riservata a pochi uomini tenaci e capaci di posticipare l’orgoglio al senso, coloro disponibili a considerare un passo indietro davvero un passo in avanti. Andrea Agnelli non è tra questi), ma piuttosto per manifestare al mondo l’errore dell’Avvocato del non averlo minimamente considerato per curare le sorti della Exor, e quindi della famiglia.

Quando arriva alla presidenza dei bianconeri, il figlio di Umberto si da subito da fare per far capire a tutti come lui sia giunto lì per fare la Storia e per trasformare la Juventus da una semplice squadra di calcio ad un brand di assoluto valore mondiale, holding di iniziative dal carattere “luxury” e “fashion” per la gente a cui piace piacere e con l’ambizione di diventare presto un faro per la mitica “Generazione Z”. Il club bianconero, nelle intenzioni del suo presidente, deve presto diventare un feticcio antropologico, capace di educare le folle e di essere immediatamente riconoscibile in tutti gli estremi del globo. Ecco perché dal nuovo logo scompare ogni riferimento alla città di Torino, diventata un recinto troppo stretto e pateticamente “comunitario” per essere recepita come un motore del cambiamento epocale. La corsa si fa continuamente con il cugino John che, aiutato dal genio di Sergio Marchionne, addirittura fionda la FIAT alla conquista dell’America e del sancta santorum dell’informazione economica, il “The Economist”, che definirlo solo un luogo da dove si proiettano al mondo notizie vorrebbe dire non sottovalutarlo, ma smarrirsi intorno al concetto di potere.

Andrea vede entrare John, omaggiato e riverito, alla riunione annuale del gruppo “Bildberg” e afferra il motivo per cui Obama ha consentito a Marchionne di acquisire la capillare rete “retail” di Chrysler permettendo alla piccola “Cinquecento” di farsi largo sulla strada dove incontrastati regnano da sempre bestioni a motore, imponendo così il concetto esistenzial/filosofico del “Gigante e la Bambina”. La replica del figlio di Umberto è quasi fantozziana, liquida il saggio e prudente Beppe Marotta dalla direzione sportiva della Juve e con Fabio Paratici, confuso improvvidamente con Sergio Marchionne, realizza il colpo del secolo, l’ariete necessario per portare a se definitivamente la “Generazione Z”. Accolla al bilancio bianconero uno stipendio ufficiale da 60 milioni di euro lordi l’anno, e porta a Torino il portoghese diventato più importante per la cultura del “Fado” persino di Fernando Pessoa, autentica icona della cultura lusitana ed europea. Risultato? Si passa da un -40 del 2018 un -357 milioni di euro di debiti finanziari netti alla fine del 2020. Qualcuno ha detto come per gli Agnelli la Juventus sia l’insegna del “locale”, ma ora questa insegna comincia a costare un po’ troppo, e forse non è più così strategica per il buon andamento del locale. Allora il caro cugino lascia andare a briglie sciolte i suoi potenti giornali (“La Stampa” e “La Repubblica”), che cominciano a vergare inchieste e articoli sulla nebulosa e incapace visione di Andrea nella conduzione degli affari bianconeri.

È un campanello d’allarme, ma il rampollo di “Casa Agnelli” non lo avverte, o se lo avverte probabilmente gli si fa strada la strana convinzione che il caro cugino non oserà. D’altronde una sentenza della Corte Federale del calcio sul caso delle “plusvalenze fittizie”, dal carattere non assolutorio ma colpevolmente liquidatorio, gli fa ritenere di essere ancora l’uomo potente del calcio e di un sistema, e non ha contezza come quello sia il classico “canto del cigno”. John Elkann lo colpisce alla giugulare radendo al suolo in un attimo l’atmosfera da “quattro amici al bar” voluta da Andrea alla Juve e dimissiona l’intero CdA del club: “le dimissioni del Consiglio di Amministrazione della Juventus- recita il comunicato del dominus della famiglia Agnelli - rappresentano un atto di responsabilità, che mette al primo posto l’interesse della società”.

Non è una sberla (quelle ormai piovono a go go) ma una autentica fucilata in cui il caro cugino praticamente si associa alle accuse della Magistratura di Torino notificate lo scorso 24 ottobre, in cui si appioppano ad Andrea e compagni ogni tipo di nefandezza possibile da commettere nella gestione di una società. Il segnale dato dalla Exor è chiaro, i lupi in attesa da anni per colpire non si fanno attendere, e fra tutti brillano Nasser Al Khelaifi e Javier Tebas (…“avete voluto ingannare il mondo con la SuperLega… le vostre dimissioni sono una grande notizia…”, esulta il presidente della Liga attraverso un tweet). La scoppola finale giunge sul capo di Andrea con le nomine di Gianluca Ferrero e Maurizio Scanavino, due “contabili” sul trono del club calcistico più potente d’Italia a sancire come forse l’Avvocato non abbia avuto poi tutti i torti a preferire John per gestire la “roba” di famiglia.

Tutto finisce qui? Roger Abravanel non è proprio un passante (qualche anno fa è stato considerato “uno dei cinquanta studenti dell’INSEAD che hanno cambiato il mondo”, con un solido curriculum da lobby mondialista) e commentando in una lunga intervista il terremoto in casa Juve ha aperto uno scenario sorprendente: “le vicende di queste giorni aprono a John Elkann nuovi gradi di libertà e vendere il club a un vero tycoon o a un fondo di private equity americano è una opzione”. Sarà bene non fermarsi alle apparenze, il mondo e la mappa della gestione del potere stanno cambiando e il calcio fa parte della sua nuova messinscena. Andrea Agnelli si è comportato come un ladro di polli, ma sui padroni del pollaio si cali un velo pietoso. “Fino alla fine”, recita il motto tra il retorico da caserma e l’infantile coniato per le ambizioni bianconere. Ecco, appunto.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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