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Quando il dolore interroga

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Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Loquor", a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

“Lieve è il dolore che parla”.

Seneca

                                                   

Nella bella intervista rilasciata ad Andrea Arena, Susanna Egri, figlia del mitico allenatore del Grande Torino Erno Erbstein, ha dato una sua personale visione della presa d’atto del dolore: “Quando guardo Superga da Torino, la guardo stranamente non con rabbia ma con la sensazione di ricevere ancora un messaggio da mio padre”.

Nella società contemporanea occidentale sta diventando davvero difficile confrontarsi con il dolore, probabilmente perché l’assenza per lungo tempo di vere e proprie emergenze collettive aveva fatto credere a noi tutti di essere entrati in “un’Arcadia” esistenziale e sociale dove non si sarebbe stati più costretti ad essere forzati a scendere nelle viscere delle cose insolute. E invece eccoci qui, a provare a parlare di sport mentre ci si è incattiviti come non mai in un contesto storico dove stanno andando in scena una pandemia ed una guerra, in un continente dove secoli di filosofia e di sviluppo del pensiero religioso dovrebbero rendere estremamente chiaro il concetto di “teodicea”, ovvero il momento in cui l’uomo si interroga sostanzialmente se l’operato, o l’apparente assenza di esso, di un Creatore può essere giustificato rispetto alla sussistenza di un male che sembrerebbe avere avvinghiato qualsiasi punto di vista della nostra società: Dio avendoci lasciato troppa libertà, ha contribuito all’evoluzione di ogni tipo di ingiustizia, e quindi a sua volta rischia di essere ingiusto.

La conseguenza di questa tesi è come noi si debba fare di tutto per trovare un motivo per giustificarlo, perché non può esistere un concetto di Dio dove non lo si prefiguri onnipotente, onnisciente e buono. Nel corso della mia vita più volte ho cercato di trovare un nesso tra la giustizia di Dio e la necessità dello svolgimento di un Suo piano, rispetto a quella maledetta ala di aereo che toccò un lembo della Basilica di Superga. Pochissimi metri più in là, ma veramente pochissimi metri, e l’aereo sarebbe tranquillamente atterrato dal suo viaggio da Lisbona. Sarebbe bastato un refolo di vento e una lieve sbandata verso destra, e la storia del Grande Torino sarebbe continuata. Ma quella lieve sbandata a destra non ci fu. E ogni volta che ci penso mi chiedo perché, vista la mia necessità di “riabilitare” Dio rispetto al dolore provato dalla generazione di mio nonno. Dovevamo forse, noi italiani, pagare un’ulteriore colpa per aver scatenato con i nazisti la II Guerra Mondiale? Quel dolore era un ulteriore pegno per le vergognose leggi razziali da noi emanate? Era una sottolineatura consentita da Dio per i forni crematori presenti a Trieste? La scomparsa improvvisa della squadra italiana più forte e significativa  della storia del nostro Paese era la tassa definitiva da pagare per saldare definitivamente un conto con la Storia? Potrebbe anche essere come la perdita del mito ci abbia dato una chance per recuperare il cielo smarrito, negli ultimi decenni fin troppo appiattitosi sulla Terra. Non riesco a ricordare il preciso momento in cui è cominciata a mancare la sua vastità.

“Non riuscirei mai a lavorare per lo Zenit di San Pietroburgo. La mia anima resterà per sempre legata allo Shakhtar Donetsk, al coraggio degli ucraini e alle bombe russe che cadevano su Kiev mentre in albergo stavamo aspettando il momento per rientrare in Italia”, è stato un passaggio di una commovente testimonianza di Marco Marcattilii, preparatore atletico di Roberto De Zerbi, con impresso nello sguardo il dolore stordente di chi aveva appena perso all’improvviso tutta una quotidianità imparata presto ad amare. Il suo sguardo e il tono delle sue parole proprio non se lo riuscivano a spiegare.

Dopo il dolore, attoniti si prova a riannodare fili e a concimare idee di giardini, con il disperato bisogno di correre a posizionarsi verso una via di mezzo tra la memoria e l’oblio. Si ha il disperato bisogno di convincersi come tutto sia frutto della “casualità” e del senza un buon motivo. Interrogarsi sul “perché” e sul “per come” costringerebbe a confrontarsi con un Creatore e spingere ancora più in basso il senso della nostra impotenza. Detestando il concetto di “impotenza”, e quindi rimuovendolo, la società contemporanea si costringe quindi a trovare espressioni di “potenza” persino attraverso curiose, nonché sciocche, esorcizzazioni del male e del dolore cercando di utilizzarle come parodia. Ecco allora, nell’ultimo Verona Napoli, alcuni tifosi scaligeri “invitare” Putin, attraverso l’esposizione di alcune coordinate geografiche, a bombardare Napoli. “Parodiamo” per non pensare al “senso”, e continuiamo a restringere il cielo nella speranza di non dover rendere conto della nostra posizione sul dolore. Rimuovere è la parola d’ordine, semmai ci si focalizza sulle storie a lieto fine, quelle dove il dolore è solo un racconto lontano premessa di esaltazione di una magnifica vittoria di oggi, e qui siamo alla storia di Moustapha Cissè dell’Atalanta, passato in pochi mesi dalla condizione di richiedente asilo e componente dei “Rinascita Refugees”, squadra militante in “Seconda Categoria” composta da gente proveniente da orribili “viaggi della speranza”, ad un gol incredibile in una partita della nostra Serie A. Skorupski, il portiere del Bologna, in realtà non ha visto entrare nella sua porta un pallone ma il segmento di una favola foriero di altri segmenti di favola.

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Siamo pensiero e racconto vivente, e nel caso di Cissè si è alla ripartenza di un nuovo viaggio dove il fine è trovare un nuovo sbocco di dolore, per poi sperare di tornare a vincerlo. Si chiama audacia, e anche incoscienza. Nel momento in cui apprendiamo senza nessun indugio come il male e la sofferenza esistano, la sensazione di un Dio incapace o non disposto a prevenirli si stanzia nel cervello e lo arrovella. Nel calcio si ha la possibilità di vedere la vita esattamente come è, ovvero si soffre eppure si spera. Ti rompi un crociato e comprendi improvvisamente come correre non sia il risultato di qualcosa di scontato, ma solo l’origine di un quadro perfetto deteriorabile nel tempo. Viktor Frankl, un sopravvissuto all’Olocausto poi diventato scrittore, in suo libro avverte che “se non puoi controllare ciò che ti accade nella vita, puoi sicuramente controllare ciò che sentirai e farai riguardo all’accaduto”. Reagire ad una sconfitta all’ultimo minuto, ad un rigore non dato, ad una “sliding doors” mancata per un soffio e colpevole del mancato passaggio di un turno di Coppa, ad un Presidente avido di ambizione ma non di storia, è il segno di un inizio di un nuovo percorso dove abbiamo la possibilità di capire come tutti noi si sia autori consapevoli e inconsapevoli di “conseguenze”. Nella “misura corrispondente a misura” (middah k’neged middah) della teodicea ebraica una delle cose supposte nel corso degli eventi è come “Hashem” (Dio) può costituire presupposti per punire una persona e avvertirla così delle sue malefatte.

Se così fosse, si potrebbe trovare un modo per gestire il dolore, e comprenderlo, di una seconda mancata qualificazione consecutiva ad un mondiale? Basta individuare il motivo della generazione di un dolore per accettarlo e usarlo come carburante per iniziare qualcosa di positivo? Anche il gioco, direi soprattutto il gioco, può dare l’inizio ad un periodo di riflessione in cui compressi nel “dolore” di qualcosa non ottenuta, seppur pensata invece come un diritto acquisito per rango e storia, si può giungere finalmente al traguardo di capire, ma capire sul serio e con onestà, per poi deliberare. Una sconfitta, qualsiasi sconfitta, porta come risultato un dolore per il vuoto creatosi causa improvvisa mancanza, ma non è una fine, piuttosto è l’invito a tornare a provare di riempire quel vuoto.

“Per un periodo non voglio pensare al calcio – ha concluso nella sua testimonianza Marco Marcattilii -, ma vorrei solo occuparmi di come dare una mano ai tanti amici lasciati in Ucraina, perché il dolore è tanto”. Il dolore appare come permesso da qualcosa di “Superiore”(chiamiamolo Dio, chiamiamola forza della natura, chiamiamola forza della Storia, e chiamiamola persino il Caso se ciò ci fa sentire più tranquilli) per donarci ogni volta l’opportunità di riflettere sull’esistenza del bene. Certo il dolore può essere a volte assordante e quasi impossibile da domare, ma può essere anche un continuo messaggio mandato dalla Basilica di Superga, che allevia la nostra fatica e diventa presentimento di qualcosa che verrà. Che verrà sempre. Grazie a Susanna Egri per averlo ricordato.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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