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La promessa di Victor Osimhen

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Torna "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi: "La vita è esattamente come una partita di calcio da giocare, dove la differenza più che la potenza o la debolezza, la fanno sempre i dettagli"

Carmelo Pennisi

“L’Africa è a forma di cuore”

Anonimo

L’annosa questione dell’essere o dell’avere, tanto cara ad Erich Fromm, potrebbe essere tranquillamente risolta con il pragmatismo di Jean Paul Sartre, che invita tutti a concentrarsi non tanto su quello che si è o si ha, ma quanto a quello che si potrebbe avere o si potrebbe diventare. Perché la vita, ad osservarla bene, non è mai una questione statica, ma dinamica. O, almeno, che sia un susseguirsi di risvolti dinamici è quanto meno auspicabile, persino nella versione teologica della celebre Parabola dei “Talenti” di evangelica memoria.

Data questa premessa, fa un po’ impressione un passaggio di una recente intervista di Victor Osimhen, autentica rivelazione del promettente (fino ad ora) campionato del Napoli, in cui l’attaccante nigeriano ricorda di “essere cresciuto in un posto dove nulla è promesso”. Fa impressione perché, con parole semplici, Osimhen sottolinea come all’inizio la vita mostri di essere quella cosa tutt’altro che meravigliosa, come vorrebbe far credere lo splendido film di Frank Capra. Essa, la vita, è esattamente come una partita di calcio da giocare, dove la differenza più che la potenza o la debolezza, la fanno sempre i dettagli. E in una partita di calcio non ci sono mai promesse, se non nella testa di tifosi patologicamente ottimisti, ma solo premesse da valutare per il nostro agire.

Tale bagno di realismo, forse un po’ cinico, consente di aprire una conversazione a cosa serva realmente una promessa, e su quale sia realmente il suo ruolo nelle nostre esistenze. Più volte la promessa ha svolto la funzione, per conto dei presidenti, di mettere ordine sull’inquietudine dei tifosi, magari scontenti di un campagna acquisti giocatori non giudicata troppo all’altezza di aspettative e sogni. Sovente non si ragiona sul fatto come le promesse, in realtà, siano delle manifestazioni delle nostre speranze, piuttosto che obblighi da mantenere ad ogni costo. E allora si rimane delusi, e lo scetticismo si fa largo con tutte i suoi tentacoli mortiferi, e si conclude come nulla di significativo possa più accadere nelle nostre vite. Dobbiamo prendere atto, al momento, dell’esserci convinti come tutto si sia ridotto al vincere o a finire nell’oblio. L’inaccettabile oblio.

Lagos, la città di Osimhen, è un mostro urbano dove non si riesce a stabilire nemmeno il numero di persone ad abitarla. C’è chi dice 11 milioni, chi 15, chi addirittura 21. Bruce Chatwin, il celebre scrittore-viaggiatore, sarebbe andato oggi a visitare e raccontare un posto dove tutto è caldo insopportabile, alto rischio di rapina ogni volta che si è per strada, diritto negato, battaglia? In “Ogni Giorno E’ Per Il Ladro”, lo splendido racconto (da leggere assolutamente) di Teju Cole, Lagos è un mondo dove è davvero difficile promettere e promettersi qualcosa, e dove l’unica cosa a regnare è la violenza: fisica, verbale e morale. Tutto può essere racchiuso in una bella e disperata frase che ritorna continuamente nel racconto di Cole: “hai qualcosa per me, signore?”. E’ uno sbarcare il lunario senza nessuna prospettiva, è l’essere nati in un luogo perduto persino alla vita stessa. Ed è lì che Victor Osimhen è nato e cresciuto.

Lo stacco imperioso con cui ha segnato il gol della vittoria dell’ultimo Napoli-Torino non poteva essere fermato nemmeno dal più bravo dei difensori, perché era una salita verso il cielo per supplicare una risposta a tanti perché. In quell’istante in cui è rimasto sospeso per aria, avrà chiuso gli occhi e cercato una scala per salire ancora più su. Superato l’istante, Victor si sarà ricordato di essere un attaccante e di dover provare a mettere alle spalle di Milinkovic Savic quel pallone con cui un giorno è riuscito finalmente a promettersi orizzonti. L’urlo dello stadio “Diego Armando Maradona” deve essere stato più della promessa di vita del ventre di una madre, e il correre verso la curva non era il solito rito da farsi ad uso e consumo dei fotografi o per arruffianarsi la parte più militante della tifoseria. E’ stato un voler raccontare l’incredulità di essere lì a promettere qualcosa a delle persone nate e cresciute in una città dove sovente l’unica promessa ad essere mantenuta è quella non mantenuta.

Victor non ha la protervia rivoluzionaria di un Maradona, non può avere la dimensione di chi ha subito l’ingiustizia dall’ingiusto. Dietro e dentro la sua storia non c’è l’illusione distribuita a piene mani da Evita Peron, e non c’è un tracollo dove prima c’era prosperità. Victor è rimasto il ragazzo di Lagos speranzoso di ottenere qualcosa da un signore di passaggio, con la consapevolezza della difficoltà immane di dare concretezza quotidiana alla sua speranza. Lo vedi correre lungo tutto il fronte d’attacco del Napoli, e hai la certezza come stia lì a raccontare la storia non degli ultimi del mondo, ma di quelli addirittura fuori classifica. Per loro non c’è la maglia nera che un tempo la “Corsa Rosa” assegnava al ciclista temporaneamente in ultima posizione, ma semplicemente il ruolo di riuscire a tenere aperti gli occhi ancora per un giorno. Essere e avere nel girone dei dannati dei fuori classifica è esattamente la stessa cosa, visto che in quel luogo esiste una tale sospensione dal “tutto” da non poter essere visualizzata nemmeno come ipotesi una dialettica esistenziale.

La differenza, nell’ultimo Napoli-Torino, l’ha fatta questo ragazzo che sarebbe molto piaciuto a Nelson Mandela, perché nonostante avrebbe molti motivi per giustificare atteggiamenti di rivalsa, continua a pensare ogni cosa come ad un dono ricevuto, come si avverte chiaramente in ogni parola delle poche interviste fin qui rilasciate. E’ un evidente uomo di pace Victor, e non ha nessuna intenzione di sostituire alla guerra il calcio come mezzo di risoluzione di contese. “Gli uomini imparano ad odiare, ma imparano anche ad amare”, disse un giorno Mandela, facendo irrompere una ipotesi di promessa in una società sudafricana talmente lacerata da dover necessariamente scoprire un nuovo modo di essere, prima di tornare ad avere. Uno dei pochi motivi per cui si può amare il calcio contemporaneo sono gli spogliatoi multietnici, risultato della “Sentenza Bosmann”, diventati il crocevia di storie altrimenti troppo lontane per venire alla luce ed essere comprese. E’ questa può essere la grande occasione, per chiunque segua con passione le vicende della “Dea Eupalla”, di riflettere veramente come non si sia soli al mondo, ma “piatti unici” di un variegato menù approntato da un Creatore con una visione talmente grande da non poter essere compresa, ma solo afferrata accettando il mistero.

Victor Osimhen, attraverso il suo comportamento e le sue parole mai banali, sta provando ad offrire ad una città da sempre convinta di dover subire in modo rassegnato torti, diventato atteggiamento triste, e a volte stucchevole, nonché litania del suo esistenzialismo, una promessa di un calcio giocato non contro qualcosa, ma per qualcosa. Inventarsi nemici che non esistono (arbitri, Juventus, potere settentrionale, ecc…) non deve sembrare un esercizio di buona logica per chi dell’assenza di ogni promessa ne ha fatto un motivo di resilienza. E se l’obiettivo dichiarato da Aurelio De Laurentiis, per convincerlo ad accettare la proposta di ingaggio del Napoli, è quello di provare a vincere lo “Scudetto”, Victor rilancia, quasi a convincere il presidente del club campano ad ingaggiarlo, con un “voglio vincere la Champions”. Lagos, con le sue strade impolverate e incombenti di sgradite sorprese, è vicina e lontana dal cuore e dalla mente di un giocatore proveniente da una cultura dove tutto è apparizione e miraggio. Ha torto Alessandro Baricco quando scrive che l’Africa è stanca, perché essa possiede il vero senso del tempo che scorre, non mancandogli mai di rispetto persino quando attende con la mano tesa in un angolo complicato di un agglomerato urbano. Il calcio ha la sua storia, da dove emergono ogni giorno speranze e sogni incredibili, anche laddove apparentemente non si è irrorato nulla. Questo sport ancora così amato, più che consumato, è un’eterna promessa di una gioia che verrà, dando così ragione a Frank Capra e alla sua “Vita E’ Una Cosa Meravigliosa”. Sul Golfo di Napoli incombono altri colori da aggiungere, oltre ai mille già narrati da Pino Daniele. Parola di Victor Osimhen.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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