“Infilarsi un paio di scarpe e lasciarsi condurre”. Jorge Luis Borges
Loquor
Quel che non hanno capito gli ultras dell’Eintracht
Ragionare sul sapere e sul trascendente a volte deve sembrare una fatica inutile, un forsennato riempire il cielo di cose per poi dargli un significato permeato da un bisogno ludico più che da una consapevolezza raggiunta. Siamo in una fase storica in cui si implora la realtà di donarci il più presto possibile la disciplina e l’obbedienza, allontanando da noi il pericolo di essere tentati ancora una volta dalla mela del “Giardino dell’Eden”. Essere ligi, convinti come questo sia il giusto viatico per il bene comune. “Diego quel giorno aveva già lasciato sul campo la malizia, una delle nostre ossessioni. Mancava ancora il virtuosismo”, scrive Jorge Valdano anni dopo la partita della “Mano di Dio” e del “Gol del Secolo”, uno scontro, anzi una battaglia, dove ci fu tutto tranne “l’attenersi”.
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“Il giovane integro è un ossimoro, il nazismo lo voleva così”, sentenzia da internet, impassibile davanti ai fine vita e incredibile ricettacolo di memoria, un Lucio Dalla appassionato di sport e di spettacolo con tale dovizia di profondità, da non cadere nemmeno per un attimo nell’equivoco di matrice “sacchiana” e “guardiolana” di confondere una squadra di calcio con un team aziendale imbevuto da corsi motivazionali e il “Santo Graal” dell’attenersi. Nel calcio, quello vero e inciso nelle pietre senza età di ogni stadio così coraggioso da allontanare il marketing dalla sua storia, c’è del provocatorio in ogni passo e un “ancora più difficile” in ogni tocco. Nel suo dipanarsi le idee, in modo vertiginoso, si scartano e si usano alla ricerca di un “meglio” nemmeno lontano parente dell’integrità. Chi da giovane cerca quest’ultima cosa, semplicemente non ha capito la vita e finisce per smarrirne il senso. A quel punto si è ghermiti dai soldi e dagli interessi, nel nome dei quali si pretende una obbedienza cieca, una ricerca del risultato più che della qualità. In tale contesto il proprietario di un club diventa il “Signore delle Scelte”, colui autorizzato a dirti ciò che va bene e ciò che va male. Rilascia interviste in cui prefigura intenti di carta, intenzioni destinate a bruciare nel più classico dei falò della vanità. “Abbiate fede, costruirò stadi e vittorie. Intanto vi presento la nuova maglia da gara per celebrare l’anniversario di non so cosa.
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Compratela, è una “limited edition” se non da indossare almeno da incorniciare”, e tu sei costretto e crederci, visto come l’amore non si deve discutere mai. E lui, il presidente, ce l’ha in mano il tuo amore, e lo fa cinguettare tutte le volte che vuole e quando vuole. Non abbiamo contezza, non abbiamo abbastanza lucidità, per capire come il calcio non sia più il respiro di un popolo, esso né è sottostante e subalterno. Siamo costretti a vederlo, perché per quanto sotto certi aspetti sia diventato finto è pur sempre una luce. Il racconto di Valdano di quel giorno in cui il progresso fu gabbato dalla malizia antica continua a martellare la mente. “Quella volta in Messico era impossibile prevenirlo. Quando un uomo sta facendo la storia, niente e nessuno può interferire”, le parole del “puntero” gaucho, zigzagando, illuminano l’immaginazione e compiono piroette verso un infinito ignoto, l’anarchia sfida l’obbedienza cieca e trova lo spirito antico del football. C’è un posto prescelto nella testa di un calciatore, laddove è certo di trovare il suo west e la sua personale epopea, la nuvola in cui puoi essere certo che potrà anche decidere di non passarti il pallone nonostante un 4-3-3 così abbia stabilito. “Non rinunciate a priori ad un tipo società, ma discutetela e, se necessario, combattetela”, queste parole di Lucio Dalla sono il richiamo della foresta contro ogni tipo di protervia adottata dal business per ottundere ogni variante del discernimento, pratica ad uso e consumo del “capo”. “La Ternana è mia, e finché è mia posso anche decidere di distruggere lo stadio in cui gioca se mi fate incazzare”, Stefano Bandecchi non ha l’aplomb del venditore di spot alla Urbano Cairo, e quindi si mette solo al comando e te lo fa capire senza mezzi termini come lo sia.
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“Sarebbe bello comprare Lo Stadio Olimpico e, perché no, anche il Filadelfia”, in queste parole Cairo pare cercare la giusta trama da remake de “L’Uomo dei Sogni” e non perde tempo a ribadire quanto lui sia il padrone del tuo “amore”, prova a sedurti provando con vacue promesse di ornarla con gioielli costosi e impareggiabili. “Gli occhi gli si forarono, la palla obbedì, l’arbitro allucinò”, sono pensieri da chi ha dentro lo spirito del tango, l’umore che dona un passato a chi non ce l’ha e un futuro a chi non lo spera. “Il tango è triste e drammatico ma mai pessimista”, chiosa Astor Piazzolla passando l’ultima carezza sulla tastiera della sua fisarmonica; chissà se in quei sessanta metri percorsi per lasciare a bocca aperta mito ed epopea, Diego Armando Maradona sia riuscito ad ascoltare le anime degli altri, quelli costipati nei “barrios” di quel “poema di cemento armato” che è Buenos Aires. “Amata devozione del mio tempo” (Buenos Aires), il verso di Borges potrebbe avergli suggerito l’esercizio del momento di follia: ignorare Burruchaga e Valdano (meglio piazzati, e gol praticamente certo), scartare Shilton e clonare così il sublime chiaroscuro di Caravaggio.
Dalla prigione di “Pollsmoor” (Città del Capo), mentre il pallone rotolava in rete, le guardie avranno sentito delle immortali parole: “io sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima”. Nelson Mandela amava il calcio e sarebbe stato contento di vedere l’istantanea di un bambino raccattapalle che tende la mano ad un giocatore di colore del Bisceglie seduto sconsolato a terra dopo una sconfitta. Le Leghe minori servono anche a raccontare storie non ancora contingentate ed etero dirette dal marketing, signore e padrone del postmoderno digitale. Con un tratto di penna e di potere si provocano movimenti sussultori e ondulatori, e il terremoto delle trasformazioni con fattura da saldare in mano compare a scombussolare e a volte a radere al suolo il gioco più seguito al mondo, colui capace di far correre dei bambini dietro ad un pallone nelle strade impolverate di Kinshasa con indosso le maglie taroccate dei loro idoli, immagine plastica del niente soldi ma molti sogni. Lo faceva anche Khvicha Kvaratskhelia a Tbilisi, maglietta bianca simil Real Madrid e via a correre illudendosi( ci siamo illusi tutti) di essere lontani da uno sguardo di una madre e credendo per un attimo di essere Guti al “Santiago Bernabeu”, tra le zolle del centrocampo tra i più suggestivi e difficili del mondo. E ti chiedi cosa sia saltato in mente al Creatore di far nascere il nuovo George Best nel crocevia tra Europa e Asia, e con lo sguardo dritto sulla “Via della Seta”: poi rammenti come il calcio parli sempre la lingua del “Mistero Eterno” che si fa presente.
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Chi si fa padrone, chi si fa “Guerriero della Notte”, come alcuni tifosi dell’Eintracht Francoforte, che umiliano il nome della loro squadra(“Concordia” in lingua tedesca) e mettono a ferro a fuoco Napoli, non può capire lo sport “della poesia del corpo”. Ritiene di poterlo addomesticare ai propri interessi o alle proprie patologie psicoanalitiche mal gestite. Giunge un momento in cui, insieme agli astri, tutti i favori e i crediti si allineano sotto “il buco dell’ozono”, e una squadra si completa con pochi milioni pronta per fare la storia sotto l’ombra del Vesuvio. “Pochi milioni” è un concetto incomprensibile per uno come Pep Guardiola, un altro padrone che si è ascritto il concetto di bellezza a suon di miliardi spesi sul mercato (due miliardi solo al City), dice che in “Italia verrà solo in vacanza, non certo per allenare”, sospetto al momento noi si sia “troppo poveri” per i suoi mai sazi sogni di gloria e da copertina comprati con la facilità di conti in banca inesauribili. “Io sono l’antico contro il quale il progresso andrà a sbattere duro e si frantumerà” annuncia orgoglioso davanti alla stampa il “ranchero” Kevin Costner di “Yellowstone”, con una convinzione analoga a quella del mio mai troppo rimpianto amico Anthony Weatherill, in diretta da un bar di una calda estate post covid a Lignano Sabbiadoro, quella della ripresa del calcio voluta ad ogni costo da Gabriele Gravina.
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“Dove sei Anthony?”, “sono al bar a vedere tutte le partite, dove vuoi che sia?”, “Proprio tutte?”, “certo, aspetto il miracolo”, “e arriverà?, il miracolo, dico.”, “è dai tempi in cui da bambino andavo a Old Trafford che arriva. Prosit Carmelo, ora lasciami attendere in santa pace.”. In quel momento, proprio in quel momento, il pallone del secolo calciato da Maradona finiva dentro la rete della porta dello “Stadio Atzeca” di Città del Messico. Il miracolo era giunto; il calcio, l’antico che ritorna, aveva ancora una volta parlato. E aveva detto tutto.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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