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Multiproprietà nel calcio: il caso Bari

Multiproprietà nel calcio: il caso Bari - immagine 1
Torna "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi con un nuovo appuntamento

Carmelo Pennisi

“La vita è diventata un inesausto far di conto” (Massimo Fini)

George Orwell ha scritto che lo “sport serio è una guerra senza spari”, un luogo dove “l’inosservanza delle regole” è la pratica più diffusa, insieme ad un piacere sadico diffuso. Insomma, niente a che vedere con il tanto decantato fair play teoricamente stella polare di ogni attività sportiva. David Foster Wallace, di rimando, vedeva nell’agonismo professionale una sorta di camera iperbarica dove “poter provare ad imparare dalle ingiustizie” (e quindi ammettendo, implicitamente, come lo sport sia tutto fuorché il regno della lealtà). È curioso come lo sport moderno si affanni ad accorrere in soccorso ad ogni tipo di iniziativa umanitaria (sfruttando l’immagine dei calciatori, eroi mitologici moderni), per poi continuamente scadere nello squallore di sordidi interessi legati al denaro.

Vendere qualcosa e ricavarne profitto pare essere la stazione terminale della lunga storia del calcio, diventato insensibile alla qualità di ciò che si vende. “Perché il gioco dovrebbe essere peggiore di qualsiasi altro mezzo per far quattrini?”, si chiede Fedor Dostoevskij, e tutto, nello sport contemporaneo, sembrerebbe dargli tristemente ragione, visto come tutto, nella società postmoderna, sia diventato espediente per far soldi. Sono lontani i tempi in cui l’Uomo di Nazareth scacciava i mercanti dal tempio e i filosofi greci individuavano nel “kata metron”, la giusta misura, il modo migliore per permettere ad una società di vivere e progredire con un minimo di senso. Se il commercio finisce per stabilirsi in ogni albero, se la buona gestione di quest’ultimo viene considerato l’unico metro di tutte le cose, allora è facile comprendere l’incipit della querelle “proprietà del Bari”, club al momento con serissime possibilità di essere promosso nella massima serie e quindi impossibilitato, da regolamento, di rimanere nelle mani della famiglia De Laurentiis già proprietaria di un altro club della Serie A.

È un problema che prima o poi doveva palesarsi, poiché tutto nel nostro Paese ha un vizio d’origine, e tutto viene in anarchia trasgredito nella speranza (molto solida) di trovare una successiva sanatoria, figlia della sciagurata tendenza ad accettare uno stato di fatto in nome del bene e della quiete pubblica. Per fare un buon affare in genere bisogna che gli altri non capiscano, perché la regola aurea del capitalismo di ogni tempo è che uno vince e un altro perde, e quest’ultimo è sempre quello che non ha capito, o ha capito di meno. Fare soldi vuol dire, nella stragrande maggioranza dei casi, lasciare qualche “cadavere” per terra, segno impressionante di un delitto impunito. Sono quasi vent’anni che Aurelio De Laurentiis cerca di convincere l’universo mondo di quanto lui si senta napoletano, con giochi di prestigio verbali protesi a far risalire ad un pastificio del nonno a Torre Annunziata la genesi del nipote “Masaniello” oggi alla guida del Napoli e del Bari. Eh sì, nei giochi da prestigiatore verbale il nostro eroe si vede come un novello Annibale degli interessi strategici del sud contro quelli del nord (“ecco perché ho preso Napoli e Bari), nel tentativo di far balenare nella mente dei suoi interlocutori una strategia geopolitica meridionale da far invidia ai sogni separatisti di Finocchiaro Aprile e ai grandiosi lamenti meridionali intellettuali di Giustino Fortunato.

Se si “scende” nella visione del figlio Luigi, meno suggestiva ma molto più pragmatica, si capisce benissimo perché quattro anni fa “Annibale” decise di infilarsi nell’affare Bari: “ci siamo resi conto che poteva essere un franchise sportivo importante, grazie al suo grande bacino d’utenza e una fan base molto attaccata alla squadra. Il Bari ha una storia sportiva importante e dei moltiplicatori economici che hanno reso importante la piazza”. A parte l’inquietante definizione di “franchise” appioppata ad una squadra di calcio (ma ormai il modus operandi del “City Football Group” ha abbattuto questa inquietudine), la questione in primo piano, più che sbaragliare le legioni romane a Canne, è ancora una volta la possibilità di far soldi. Non c’è la storia del pastificio di un nonno (nel caso di Luigi, il bisnonno) napoletano da onorare, ma interessi lucrosi da inseguire. Non c’è niente di male nel voler far soldi, per carità, ma almeno lo si dica chiaramente e la si smetta di far retorica da sceneggiata napoletana, visto come non si sia di fronte alla trama eccessivamente semplificata di una sceneggiata stile “O Zappatore” del compianto Mario Merola. La vita a volte può essere analogia di un film, ma non è un film.

Aurelio De Laurentiis ha dimostrato di essere abile nel gestire affari nel mondo del calcio, con idee chiare e la voglia di dedicare anima, corpo e tempo alla causa, ma come tutti gli uomini di successo ha la pretesa di una logica disposta a credere a tutte le parole partorite dalla sua mente. Una mente con una consapevolezza tale degli obiettivi, da aver fissato, secondo indiscrezioni pubblicate da “La Repubblica”, a 150 milioni di euro il prezzo della vendita dei “Galletti” baresi. Un prezzo stabilito non si capisce in base a quali criteri, considerato come, eventualmente, il club pugliese sarebbe una neopromossa, senza stadio e strutture di proprietà. Ma, si sa, “ogni scarraffone è bell’ a mamma soja” ed è facile far finta di dimenticarsi come nessun club di Serie A di terza fascia (e nemmeno di seconda fascia) troverebbe mai qualcuno capace di buttare così tanti soldi in un’avventura del genere. Non lo si potrebbe trovare né in Italia (dove i pochi imprenditori disponibili ad investire nel calcio, lo hanno fatto prendendo i club dal tribunale fallimentare o praticamente in regalo. De Laurentiis lo ha fatto per ben due volte) e men che mai all’estero. Rimarrebbe, quindi, solo la strada dei fondi di investimento speculativi, generalmente interessati a società fortemente indebitate e su il cui debito si può lucrare.

Non è il caso del Bari. In questa vicenda che rischia di avvitarsi in una pericola situazione di stallo (basti ricordare la vicenda della Salernitana passata dalle mani di Lotito a quelle di Iervolino, dopo mille trattative e peripezie), si stanno distinguendo parlamentari pugliesi di ogni ordine e grado, che hanno trovato il tempo di chiamare in causa la FGCI e il Ministro dello Sport Andrea Abodi, invitandoli a modificare il regolamento in favore della possibilità di detenere una multiproprietà nella stessa serie. “Non c’è alcuna norma UEFA che vieta ad un padre e a un figlio di avere la proprietà di due club impegnati nella stessa competizione europea. Bisogna mettere al bando la cultura del sospetto e premiare innanzi tutto la corretta gestione dei conti e la capacità imprenditoriale”, così il deputato pugliese della Lega Davide Bellomo, che è difficile capire se ci è o ci fa.

Credere sul serio che la gestione dei due club in questione siano roba di un padre e di un figlio, sarebbe più o meno come credere che i bambini vengono portati da una cicogna direttamente in una culla approntata dai genitori (è chiaro come a decidere ci sia una sola persona: Aurelio De Laurentiis).  Mettere al bando la cultura del sospetto non vuol dire tana libera tutti e speriamo nel comportamento corretto. A Bellomo pare sfuggire, ed è cosa grave trattandosi di un politico, come regole e leggi esistano anche perché sarebbe quantomeno imprudente (per non dire scellerato) regolare i rapporti sociali auspicando una improbabile buona fede e virtuosità delle persone. Se tutto deve non solo essere onesto ma anche sembrarlo, non è a causa di un atteggiamento sospetto fobico, ma di una certezza epistemologica affermatesi in qualche migliaio di anni di vicende umane. I club calcistici non si trovano ad operare nell’idilliaco mondo del “buon selvaggio” di Jean Jaques Rosseau, ma nella società progredita post moderna dove ogni cosa è denaro o segno del denaro.

“Annibale” De Laurentiis è stato in tutta evidenza sedotto dalla capacità del calcio di generare denaro e di porre i suoi protagonisti al centro dell’agone nazionale, motivo per cui in realtà raramente parla dell’aspetto agonistico della sua squadra, preferendo concentrarsi spesso su fatturato e profitto. “Tutto il resto è conversazione”, direbbe il raider di borsa Gordon Gekko del film culto “Wall Street”. Aurelio de Laurentiis è un uomo d’affari e come tutti gli uomini d’affari non ha memoria, quindi è un ossimoro permettere ad un tipo così la possibilità di scardinare le regole scritte, e specialmente quelle non scritte, di uno sport che della memoria ha fatto la sua fortuna e il suo core business. Vale la pena dargli credito solo perché ha dimostrato di saper gestire bene le attività dei suoi club? Difficile rispondere a questa domanda, ma forse su questa domanda sarebbe bene aprire urgentemente un dibattito. Prima che sia veramente troppo tardi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

 

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