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La tragicommedia del Barcellona

La tragicommedia del Barcellona - immagine 1
Torna un nuovo appuntamento con la rubrica “Loquor”, a cura di Carmelo Pennisi

“L’originalità consiste nel

                                                                                   tornare alle origini”.

Antoni Gaudì

Il Barcellona continua a dibattersi dentro un vortice di una crisi senza fine, fatta di una situazione debitoria talmente ingente da non poter esser calmierata nemmeno dalla recente entrata di 600 milioni di euro derivanti dalla vendita del 25% dei diritti tv della Liga per i prossimi 25 anni e della quota del 24,5% dei Barca Studios, ovvero dei contenuti multimediali di proprietà dei “Blaugrana”. Come una idrovora assetata di soldi, il club catalano si è addirittura spinto a chiedere all’UEFA l’anticipo degli introiti dei futuri diritti televisivi della Champions League, ottenendo da Nyon uno stupito diniego in quanto, come da logica spiccia, non c’è nessuna garanzia di un Barcellona qualificato per le prossime edizioni della massima competizione continentale per club.

Per la serie: del domani non vi è certezza. Ma questa strana richiesta all’UEFA nasconde un tratto sintomatico di una squadra-istituzione per una Catalogna da sempre immersa in spinte separatiste e nel sentirsi capofila dei “buoni” nel prolungamento senza fine della guerra civile spagnola combattuta nella seconda metà degli anni 30 del secolo scorso, cioè la presunzione di poter sopravvivere a tutto e a tutti per diritto nobiliare e quasi divino. Il Barcellona sta vivendo la sua drammatica situazione economica, sintomo visibile di una crisi dell’Europa meridionale nel suo complesso, non riuscendo a prendere atto della necessità di un urgente ridimensionamento delle ambizioni sportive in attesa di tempi migliori e di una decisa ristrutturazione finanziaria all’interno delle sue attività.

I “Blaugrana” hanno sempre goduto di buona stampa, pronta ad elogiarne con plateale eccesso ogni sua ciclica affermazione, e paiono quasi un passato remoto, e non un recente ieri, i trionfi del “tiki taka” di Pep Guardiola interpretato da un’autentica generazione di fenomeni spagnoli a cui era stata aggiunta la ciliegina sulla torta Lionel Messi. In quei giorni di orgiastiche vittorie, la stampa, pronta ad andare in soccorso dei vincitori poiché annoverati tra i “buoni”, si affannava a spiegare come dalle parti di Xavi e compagni le cose funzionassero grazie ad un settore giovanile impeccabile e votato alla perfezione, laddove per perfezione si intende abbracciare un unico sistema di gioco: attaccare, attaccare e ancora attaccare. È aver traslato il concetto letterario dell’Hidalgo (“figlio di qualcuno”) nel calcio, rimuovendo sorprendentemente come nello sport tutto sia perfettamente ciclico, sublime monito esistenziale di una ruota che gira per il verso giusto, prima o poi, a vantaggio di tutti. I giorni di Pep Guardiola venivano descritti alla stessa stregua di un messia ritornato sulla terra, ma non per indicare la via di una “Croce” o di un “Golgota”, ma di una “Resurrezione” e di un “Paradiso” permanente in Terra.

I sedotti dalla supremazia, capitanati dal solito Arrigo Sacchi, si erano sul serio convinti che Xavi, Piquè, Busquets, ecc ed ecc…, fossero il frutto di un sistema tra lo scientifico e il filosofico pronto a ripetere nei secoli il suprematismo in salsa “Camp Nou”. Siamo in una via di mezzo tra il movimento artistico sovietico fondato (in collaborazione con il poeta Vladimir Majakovskij) dal pittore Kazimir Malevic (dove l’arte è fine a se stessa) e l’idea generale dove ideologicamente si pone uno stile di vita al di sopra degli altri. Scambiando il “tatticismo” per espressione esistenziale assai volgare, i fautori della potenza sopra ogni cosa, confusa con il concetto di bellezza, pretendevano un mondo uniformato all’idea portata a suo tempo sulle “Ramblas” dall’olandese Johan Cruijff. Conformare il calcio era diventata la parola d’ordine, con la generazione d’oro del calcio spagnolo a portare su tutte le vette del mondo possibili le “Furie Rosse”.

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Allo stesso modo dell’arte fine a se stessa di Malevic, riducendo un quadro al solo elemento del colore, nel calcio del “Mes que un Club” (molto più di una squadra) il pallone diventava l’unica via di espressione di una idea, contraddicendo in modo fattuale tutta la storia sociale dello sport più seguito al mondo. Brindare al conformismo era la parola d’ordine al tempo del “tiki taka” made in Pep, il quale ha recentemente dichiarato di non volersi spostare da Manchester, sponda City, avendo probabilmente ben compreso l’assenza di altri posti munifici fino all’inverosimile in cui andare a pascolare le sue idee da “Colazione da Tiffany” (ma Pep non si disperi, forse il fondo “PIF” presto trasformerà in terreno suprematista anche il Newcastle). “I successi economici dipendono da quelli sportivi” è l’aforisma preferito del presidente del club catalano Joan La Porta, che diventa quasi un ossimoro se messo di fronte al miliardo e trecento milioni di debiti presenti nel libro mastro del club da lui presieduto.

Ovviamente la stampa amica (quasi tutta. Il conformismo è la parola d’ordine di “un cane da guardia” del potere mutato in “cane di compagnia”) si è affrettata a sottolineare il non tenere conto dei crediti di quel numero “passivo” dietro il quale si nasconde anche l’enorme patrimonio immobiliare e mobiliare dei “Blaugrana”, di cui si è ingolosita persino la potente banca d’affari “Goldman Sachs” generosa(si fa per dire) prestatrice di due miliardi di euro atto a dare ossigeno all’affanno finanziario dei catalani. Siamo alla tragedia mista a commedia, al “Don Chisciotte della Mancia” talmente appassionato dai racconti sulla cavalleria da dimenticarsi totalmente di occuparsi della caccia e dell’amministrazione dei suoi beni, giungendo al punto di vendere porzioni della sua terra per comprare altri romanzi cavallereschi da leggere.

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La perdita di senno e lo scollamento dalla realtà dell’Hidalgo della Mancia sono causa, nel corso del celebre racconto, della confusione tra desideri e coscienza di sè. Intanto, continuando in questa opera buffa 2.0, La Porta continua a fare campagne acquisti estremamente dispendiose al momento stoppate da Javier Tebas, il presidente della Liga, finché il Barcellona non rientrerà nei parametri finanziari in vigore nella massima serie spagnola. A questo punto, nonostante il reiterato ottimismo di La Porta, tra due giorni Franck Kessie e Andreas Christensen, i due giocatori presi a parametro zero, potrebbero svincolarsi dal club catalano e rimettersi sul mercato, mentre Robert Lewandowski rimarrebbe parcheggiato in tribuna in attesa che la severa burocrazia finanziaria della Liga gli dia prima o poi il permesso di poter registrare il suo tesseramento con la squadra guidata da Xavi Hernandez.

In tutto questo bailamme il presidente del Barcellona, tra inni continui all’indipendenza della Catalogna e vendite da “Monte di Pietà” dei cespiti del suo club, sogna una “cripto valuta blaugrana”, l’entertainment connesso alla realtà virtuale, la trasmissione dei contenuti in streaming e lo sviluppo degli e-games. “Siamo – ha detto La Porta - una marchio globale ammirato e, grazie al nostro impegno sociale, amato in tutto il mondo”. Fa un po’ specie come si passi da una disperata caccia alla monetizzazione di qualsiasi cosa al dichiarare il proprio impegno sociale, come se il significato del valore delle parole non avessero più senso, come se la sottrazione del pensiero insito dentro di esse sia definitivamente dato per scontato. È il progettare una campagna di marketing stordente “dalla culla alla tomba”, orientando, fedele al “principio tattico dell’orchestrazione” studiato dalla comunicazione propagandistica, il tifoso non solo al consumo odierno ma anche a quello futuro. Ma pare tutto questo vada bene a tutti (anche perché il Barcellona fa parte dei “buoni”) e il cattivone di turno è Javier Tebas, reo di stare tentando di portare a più miti consigli il massimo movimento calcistico iberico.

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Come si permette il presidente della Liga a fermare il progresso del capitalismo, non sa come ogni forma di attività umana si basi sul debito? Il debito non è una colpa ma una incommensurabile fiducia verso il futuro, provare ad arginarlo sarebbe una ammissione di debolezza e ciò al “Mes que un Club” non sarebbe accettabile, La Porta è stato eletto presidente dall’assemblea dei soci proprio per questo. È inquietante osservare tanta scellerata gestione di un bene comune. È avvilente una stampa che non provi a fermare questa corsa senza senso. E’ imperdonabile la distruzione sistematica del valore sociale del calcio. E’ incomprensibile l’abbandono dell’etica da parte dello sport. E’ stupefacente la facilità con cui gli uomini di quest’Era mentono. Qualcuno sta creando nuove abitudini senza il necessario dibattito tra le parti, in sostanza una vita senza vita. Non andrà bene.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

 

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